Gregoire Ahongbonon

Strappati dal nulla

Un gommista, padre di famiglia. Che a un tratto ha perso tutto. Ma proprio lì, la sua vita è rinata. Fino a imbattersi nei malati psichici... La storia di Gregoire Ahongbonon, che ha liberato e guarito migliaia di uomini (da Tracce, marzo 2010)
Alessandra Stoppa

Gli accarezza la testa. «Come stai?». Il ragazzo lo fissa e non parla. La sua pelle e il suo sguardo sono rinsecchiti nella polvere sotto il sole. Dice solo di aver fame, non mangia da giorni. «Io mi chiamo Gregoire, ti porto con me. Vuoi venire?». È una vampata. Gli trema il petto, si alzerebbe di scatto se potesse, ma non riesce a muoversi. È inchiodato a un legno con dei ganci di ferro. Immobile così da tre anni. Tutto nudo, le gambe sottili sono due rami secchi.
La gente del villaggio si è raccolta intorno per vedere cosa succede. Ma nessuno parla. Rimbombano solo i colpi di martello. Gregoire picchia con forza fino a piegare i ganci. In due sollevano il ragazzo e lo mettono in piedi. Sotto il peso sembra che le gambe si spezzino. Gregoire gli passa una spugna, delicatamente, su tutto il corpo, gli taglia i capelli incrostati. E gli mette una camicia, mentre il ragazzo lo guarda in silenzio, lasciandosi fare tutto. Gli chiude i bottoni, uno a uno, come fosse un bambino. Come fosse il suo unico figlio. Il fatto è che è unico come gli altri quindicimila, e più, che Gregoire Ahongbonon ha preso con sé.

Il taxi della fortuna. Quel ragazzo oggi lavora in ospedale, reparto di Radiologia. Quando Gregoire lo ha liberato pelle e ossa in mezzo alle sterpaglie e all’odore delle sue feci, era “il matto”. Il posseduto dal diavolo. Per questo i suoi genitori lo avevano legato come uno schiavo. In certe zone dell’Africa, è la sorte degli uomini la cui mente si ammala. Vengono incatenati, con dei ceppi ai piedi, inchiodati nel legno o al suolo. Lasciati lì, per paura, sotto la pioggia e il sole per anni, perché gli spiriti malvagi se ne vadano. E loro attendono la morte, che venga a liberarli. Non si aspettano più che a venire sia un uomo.
Nemmeno Gregoire si aspettava che un giorno uno sconosciuto lo accogliesse in quel modo, «come se mi aspettasse da sempre». Un prete, che «ha preso il tempo per ascoltarmi, e i miei problemi sono diventati i suoi». Un uomo che si è commosso per lui e lo ha strappato dal nulla. Dice che non saprà mai come spiegare quello che è successo nella sua vita. «Però è successo», sorride.
È successo che è arrivato a perdere tutto. A ventitré anni era uno dei pochissimi ragazzi della Costa d’Avorio ad avere una macchina di proprietà. Faceva il gommista. «Riparavo pneumatici, tutto qui». Ma gli affari funzionavano. Tanto che si è comprato quattro taxi e la fortuna è diventata il suo riferimento, ed è girata, girata e rigirata fino a capovolgersi. Alla fine degli anni Settanta, ha perso tutto: «Volevo solo ammazzarmi. Non mi sono impiccato perché ho sentito che la vita che era in me non veniva da me. È stato Dio a venirmi in soccorso». Aveva la faccia di quel prete. Che dopo un po’ di tempo lo ha invitato a un pellegrinaggio a Gerusalemme.
Sono passati ventotto anni da quel viaggio e dall’amore con cui Dio lo ha salvato da se stesso. A quell’amore Gregoire ha esposto tutta la sua vita. L’ha lasciata andare dalle mani per gratitudine. E per rispondere al tormento di una frase sentita a Gerusalemme: «Ogni cristiano partecipa alla costruzione della Chiesa ponendo la sua pietra». È tornato a Bouaké, nel cuore della Costa d’Avorio, dove viveva con la moglie e i figli, per capire quale fosse la pietra che doveva porre lui. Non ne aveva la minima idea. All’epoca, l’unica cosa che ha fatto è stata iniziare un gruppo di preghiera con altri otto.

La pietra e il bambino. Un giorno, uno di questi gli dice che c’è un bimbo del suo villaggio gravemente malato, ormai non parla e non mangia più. «I genitori sono musulmani, ma se ci danno il permesso possiamo andare a pregare da lui». La famiglia accetta e vanno. L’indomani la madre del piccolo corre da loro: «Mio figlio ha ripreso a mangiare e a parlare».
Allora, forse, anche le persone in ospedale hanno bisogno delle loro preghiere. E iniziano ad andarle a trovare. «Tutto qui». È che Gregoire si piega sempre più su di loro. Come su quel matto che vede vagare senza vestiti per strada. O su quelli che trova incatenati agli alberi. Ha iniziato a servire come poteva i malati. A furia di afferrare i palmi delle loro mani, sono diventati il suo compito e il suo desiderio. Fino a far coincidere la sua vita con il loro bisogno. «Che è uno solo», dice: «Quello di ciascuno, essere amati».
Soltanto un anno dopo il viaggio a Gerusalemme, aveva fondato l’associazione San Camillo de Lellis (vedi box a pag. 36), che ha iniziato a occuparsi di chi non poteva pagarsi le cure, dei carcerati, dei profughi della vicina Liberia, dei malati mentali. Nel tempo l’associazione è diventata una realtà enorme ed eccezionale. Con undici centri, tra accoglienza e riabilitazione, per persone con problemi psichici, sparsi tra Costa d’Avorio e Benin; un ospedale e vari luoghi di lavoro per il reinserimento lavorativo, dalla tipografia al forno, all’azienda agricola.
Oggi dice che non è stato lui a volere tutto questo, né a farlo. Come se porre la sua pietra sia stato soltanto cercare Dio. «E ora non so come ringraziarLo di tutto quello che ha fatto accadere». Di essersi fatto trovare.

Un fatto dopo l’altro. Gregoire è un uomo dai modi umili, che parla solo di quello che accade. Non esce nient’altro dalla sua bocca. Non un pensiero di troppo, un ragionamento astratto. Nella sua vita ogni cosa è venuta su come l’ospedale di Bouaké. Un fatto dopo l’altro. È contentissimo quando lo racconta, come se dicesse di un regalo appena ricevuto. «Il primo centro d’accoglienza per i malati mentali l’avevamo aperto nell’ospedale cittadino. In più, i poveri passavano attraverso di noi per potersi curare gratuitamente: lì, se non hai soldi, sei abbandonato. Una mattina mi chiama il direttore dell’ospedale: le persone dovevano iniziare a pagare perché la struttura viveva delle prescrizioni. E poi il nostro centro non aveva più posti. Allora vado dal prefetto a chiedere un terreno per un nuovo centro. Mi dice: “Vai in città, cerca un posto”».

«Tu mi accompagni?». Lui va, ma il terreno che trova non è più dell’amministrazione. Risale al proprietario e convoca i membri dell’associazione, tutte persone in vista della città. Propone di fare una delegazione per andare a chiedere il terreno. Si alza il vicesindaco: «Se tu sei matto, io non lo sono. Quel terreno è nel cuore della città e tu vuoi chiederlo gratuitamente? Tu sei malato». Sbatte la porta e se ne va, lo seguono tutti. Tranne uno. Gregoire lo guarda: «Tu mi accompagni?».
Vanno dal proprietario, un signore anziano. «Nel tragitto ho pensato che se gli parlavo di un centro per l’associazione non avrebbe accettato. Dovevo dirgli di voler fare un ospedale, magari lo convincevo. L’idea dell’ospedale mi è venuta così». Spiegano al proprietario la richiesta. Il vecchio abbassa la testa per qualche minuto: «Da quando vedo il lavoro che fate mi dico che, se fossi giovane, lavorerei per voi. E oggi venite a chiedermi questo. Non siete voi che siete venuti, è Dio che è venuto prima di voi. Il terreno è vostro». A questo punto non hanno nemmeno cento franchi per iniziare la costruzione. Ma, poi, Gregoire incontra un amico che vuole aiutarlo e sarà lui a mandargli i costruttori. Poi un altro, ancora, che gli trova un medico gratis per due anni.
C’è solo una cosa che gli manca: «La benedizione della Chiesa. I preti non mi sostenevano. Rimaneva solo il Vescovo». Un giorno lo vede davanti alla cattedrale: non osa dirgli che vuole costruire un ospedale, gli parla di un piccolo centro sanitario. «Il Vescovo mi ascolta, poi dice: “Preferisco che mi parli di un ospedale cattolico, non di un piccolo centro sanitario”. Lì ho avuto la mia “autorizzazione”. Oggi l’ospedale è l’unica chance per i poveri in tutta la regione. Sono io che ho voluto quell’ospedale? Non sono io».
Ripensa alle parole della moglie, Léontine. Per lei è stato difficile. Prima lo ha visto portare i malati a casa, dormivano sotto gli alberi. Poi lo ha visto uscire all’alba e tornare sempre più tardi la sera. I malati e i poveri si moltiplicavano, insieme agli impegni e ai problemi. «All’inizio lei non comprendeva, ma il Signore l’aveva preparata in anticipo e l’ha aiutata in fretta», dice Gregoire.

Sul motorino in guerra. Un giorno Léontine lo chiama: «Ho capito che questo lo vuole Dio. Tutto quello che ti chiedo è di pagare l’educazione dei nostri ragazzi». Da allora lo sostiene in tutto, lavora al mercato per mandare avanti la casa e gestisce i farmaci per l’associazione. Così i sei figli. La più piccola, che ha vent’anni, ha deciso di fare Medicina per aiutare il padre nella sua opera.
«L’opera non è mia». Ripete, instancabile, quasi fosse il suo respiro. Quando la gente gli chiede dove trova le forze per portare avanti tutto, dice che è dall’Eucaristia di ogni giorno. «E poi non sono mica da solo: ci sono i matti con me, che si implicano, di continuo». Davanti a un problema fra i tanti, li chiama tutti a raccolta: «Non posso pagare una persona esterna che faccia da cuoca per il centro, non so come fare. Vi chiedo di pregare per questo». Uno di loro si alza in piedi: «Deve sapere una cosa, il nostro silenzio è una preghiera per lei. Perché io che le sto parlando, quando ero abbandonato, non avrei mai pensato che un uomo avrebbe potuto tendermi la mano. Invece qui, ci sono persone che mi parlano, che mangiano con me». Si alza anche una donna: «Prima di ammalarmi, facevo la cuoca. Allora noi possiamo cucinare per noi stessi». Da quel giorno tutte le cucine sono gestite dai malati. «È evidente che questo lavoro lo fa Dio. Si prende cura di loro».
È sapere questo che lo fa dormire di notte. Anche quando scoppia la guerra civile e coi matti sfama la popolazione in fuga, portando il riso avanti e indietro su un motorino tra i ribelli che sparano. O quando le condizioni dei malati sono così disumane da fargli venire le vertigini e trova «un uomo inchiodato nel legno, marcito». È quello che non gli fa abbassare le braccia quando la realtà è troppo dura. «Anch’io ho paura, e a volte non capisco. Ho desideri a cui Dio sembra non rispondere. Ma la mia preghiera è fare la Sua volontà, non la mia». Da molti anni, per esempio, vorrebbe aprire un centro ad Abidjan, però gli ostacoli sono troppi: «Si vede che ora non è tra le Sue preoccupazioni. La mia speranza è non perdere questa fiducia. E comunque non dobbiamo temere: tutto ciò che viene da Dio passa per la prova».
Poi la Provvidenza si presenta in cose così grandi che sono la sua speranza. Come vedere Cristine. L’ha trovata crocifissa come Gesù, perché aveva un ritardo mentale. Oggi le catene che la legavano stanno in chiesa e lei fa la cuoca in uno dei centri dell’associazione. Tantissimi matti sono all’opera nei centri, che sono tutti coordinati da malati. Guariti.

Morire da uomini. Quando Marco Bertoli, psichiatra friulano, ha scoperto l’opera di Gregoire è rimasto senza parole. Così come altri esperti di servizi psichiatrici e programmi di riabilitazione. «Il suo approccio ha dato esiti terapeutici straordinari. È un intervento d’avanguardia: li libera, li nutre, li cura, insegna loro un mestiere e li riporta a casa», dice Bertoli, che da più di dieci anni si è messo al fianco di Gregoire, aiuta e segue la sua avventura.
«Non facciamo miracoli», ribadisce Gregoire: «Quello che fa chiarezza nella nostra opera è l’amore». Prove viventi che a tutto l’umano risponde la carità. E questa carità sta trasformando la cultura, la mentalità di una popolazione. Nel tempo ci sono stati tanti cambiamenti: dove sorgono i centri della San Camillo, le famiglie non incatenano più i loro malati. Lo facevano per disperazione e vergogna, o li affidavano a sette di origine protestante che li torturavano per liberarli dal maligno, in cambio di soldi.
Anche Gregoire era immerso in questa mentalità. «Poi ho scoperto nelle mani di quei dimenticati Cristo e non ho più avuto paura». Lui li guarda e vede il cielo. E loro guariscono, o muoiono da uomini. Amati. Come lui, che attraverso di loro è raggiunto ogni giorno dal suo destino. E facendosi quasi trasparente nel loro bisogno, diventa sempre più se stesso.
Questa dedizione quotidiana ha generato un metodo. È il metodo di un uomo che non ha mai studiato, eppure più efficace delle tecniche erudite degli esperti. «Quello che Dio vuole lo fa, indipendentemente da quello che siamo», taglia corto lui. Un medico di una grande clinica del Benin lo ha chiamato per chiedergli com’è riuscito a guarire un uomo con cui avevano provato tutte le terapie possibili. Si sono confrontati anche sui farmaci: gli stessi. Alla fine il medico si è arreso: «È Dio che vi spinge perché il mondo apra gli occhi. La San Camillo non viene da voi». «È vero», dice Gregoire: «Io so solo riparare pneumatici».