L’incontro nella sala dei Dottori, al Monte Koya

Un ponte chiamato Meeting

La cena all’Ambasciata, l’incontro all’Istituto italiano di cultura, l’abbraccio con il buddista Shodo Habukawa. E quella foto di don Giussani nel tempio... La kermesse riminese è sbarcata a Tokyo e sul Monte Koya (da Tracce, novembre 2011)
Davide Perillo

Il gong suona appena prima delle sei. Un tocco solo. Silenzio. Poi un altro. Poi il ritmo si fa più veloce. All’ultimo rintocco, inizia la preghiera. I monaci su un lato del tempio, a intonare mantra e preghiere che prendono il cuore. È come un canto bellissimo che poggia sempre sulle stesse note, e torna, e insiste, ma non diventa mai melodia. Dall’altro lato c’è Shodo Habukawa, il maestro, seduto davanti a un braciere. Gesti precisi, secchi e armonici insieme, come se ogni movimento portasse dentro un mondo intero e in quel fuoco che si alza un po’ alla volta e poi fiammeggia forte ci fosse davvero una presenza misteriosa. Ma il colpo più potente arriva dopo, quando un monaco invita chi assiste al rito a girare attorno, lungo la parete, per passare davanti agli altari che da dietro non potevi vedere bene. Sul primo si rende omaggio a Kobo Daishi, il fondatore del buddismo Shingon. Sul secondo, trovi la foto di don Giussani. Ne afferri anche il nome dopo, nella litania finale. E quello di Giovanni Paolo II, e di don Francesco Ricci. Pregano per loro. E per gli ospiti del Monte Koya, arrivati il giorno prima dall’Italia. Dalla Spagna. O da altri angoli del Giappone. Tutti per qualcosa che a pensarla prima non avresti mai potuto immaginare. Non così.

Un passo in più. È il Meeting di Rimini che sbarca in Giappone, abbiamo scritto noi stessi per dare l’idea. Ed è vero. Ma al tempo stesso è di più. È un’amicizia che si rafforza, ricordando il viaggio che fece proprio qui don Giussani nel 1987 e il rapporto nato allora con Shodo Habukawa, massima autorità di questa scuola buddista. È l’occasione per tre giorni di incontri di alto livello sul rapporto tra cristianesimo e buddismo (titolo esatto: “Tradizione e globalizzazione”), tra tavole rotonde, presentazioni del Meeting, momenti di musica e danza. Ma è anche «l’occasione per alzare il livello dei rapporti tra Italia e Giappone, perché noi di quel viaggio di don Giussani che ha permesso questo incontro tra due mondi siamo orgogliosi come Paese». Parole, testuali, di Vincenzo Petrone, ambasciatore italiano a Tokyo. Mesi fa, visitando il Monte Koya, si era sentito dire più o meno: «Ma sa che prima di lei qui c’è stato un altro italiano molto importante?». Da lì, e da un colloquio con Roberto Fontolan, direttore del Centro internazionale di Cl, l’idea di approfittare del ciclo di iniziative Italia-Giappone, in corso quest’anno, per portare nel Sol Levante non solo marchi da export e arte tricolore, ma anche un passo in più nella comprensione delle proprie tradizioni religiose.
Il risultato è che a Tokyo approda una delegazione composta da parte dello staff Meeting, prima fra tutti la presidente Emilia Guarnieri, lo stesso Fontolan, il filosofo Costantino Esposito, Etsuro Sotoo, lo scultore giapponese della Sagrada Família, don Ambrogio Pisoni, visitor del movimento in Asia (e almeno due volte l’anno ospite di Habukawa). E don Massimo Camisasca, inviato direttamente da Julián Carrón che non ha potuto esserci soltanto perché negli stessi giorni era ad Assisi all’incontro sulle religioni voluto da Benedetto XVI. Atterri pensando che non sarà il Meeting Cairo: nessun gruppo di amici all’origine, niente volontari col velo ad accogliere ospiti, formula diversa e contesto completamente differente... Te ne andrai colpito dallo stesso stupore che hai vissuto lì, giusto un anno fa.
A cominciare dalla prima serata, un ricevimento all’Ambasciata. Fuori, un giardino di una bellezza che incanta. Dentro, ancora di più. Si tratta solo di saluti. E di una cena in piedi. Ma c’è davvero poco di formale. Sako l’avevi incontrata a La Thuile, Marcia sei mesi fa, quando abitava ancora in Brasile. Ti aspettavi di rivederle qui, ma non in kimono... Come Yurye e altre amiche che vivono in Giappone e guardano stupite. Cosa? L’abbraccio commosso tra Emilia Guarnieri e Habukawa (si conoscono bene: tra un viaggio e l’altro, dopo quell’87, i bonzi sono stati al Meeting 14 volte); l’arrivo del nuovo Nunzio apostolico a Tokyo, Joseph Chennoth, che in pratica è al primo impegno ufficiale; le danze Gagaku, con quelle movenze che sembrano a loro volta meditazione; il maestro Aoki, musicista giapponese, che canta Torna a Surriento e Santa Lucia luntana. Non è ancora iniziato, e gli italiani hanno già una domanda stampata in faccia: che cosa sta succedendo?
Al mattino dopo, appuntamento all’Istituto italiano di cultura, diretto da Umberto Donati, padrone di casa cortese e affabile. Una delle nostre sedi più prestigiose all’estero, palazzo firmato Gae Aulenti (con una facciata rosso fiamma). Fontolan legge il saluto di Carrón (il testo completo lo trovate su Tracce.it): la sfida del Papa (e di Giussani) sulla «ragione aperta» vale anche qui, eccome. Ma c’è un passaggio che, pensando ai giorni seguenti, suona addirittura profetico: «L’amicizia con loro è un esempio solare di ecumenismo reale. Un amore alla verità che è presente, fosse anche per un frammento, in chiunque. Questa apertura fa trovare a casa propria presso chiunque conservi un brandello di verità, a proprio agio ovunque...».

Monte Koya. I ricordi dai viaggi in Italia dei monaci

Facce stranite. Prima tornata di interventi (anche qui, la cronaca la trovate online). Emilia presenta il Meeting. Esposito parla di ragione e presenza. Camisasca del senso religioso. Giorgio Amitrano, professore all’Orientale di Napoli, del poeta buddista Miyazawa Kenji e dei suoi legami con il cristianesimo. Franco Marcoaldi, scrittore e firma di Repubblica, racconta la figura di Fosco Maraini. Eisho Yagi, abate del tempio Myojoin, del suo viaggio a Kampala, tra le donne del Meeting Point. Interviene anche Habukawa. Una frase, in particolare, ti fa sobbalzare: «Tutte le cose esistenti hanno una sorta di missione. Sono come un avvertimento da parte dell’universo. Dobbiamo tutti riconoscerci legati al mistero». Sembra l’eco di quell’«invito presente nella realtà» a cui accennava Carrón nella Giornata d’inizio di Cl, il primo ottobre. In sala, un’ottantina di persone. Si affaccia anche monsignor Giuseppe Pittau, a lungo rettore della Sophia University gesuita: un’autorità assoluta sul Giappone. In una pausa, scambi due parole con un altro missionario di lungo corso: Gaetano Compri, salesiano, 81 anni di età e 56 passati qui. Fu lui a tradurre la conferenza di Giussani, nell’87. «Alla fine ero sudato». Scherza, ma non troppo. Non è semplice rendere certe frasi in una lingua che per dire “identità” o “sorpresa”, per esempio, non ha sostantivi, ma solo parafrasi. Cosa dice Compri di questa occasione? «Utile. Utilissima. Giappone e buddismo, per l’Italia, sono ancora poco conosciuti». Commento di Emilia a metà dei lavori: «Quello che ci diciamo oggi mi aiuta a capire qualcosa che è già successo: l’avvenimento di un’amicizia. Senza, non solo non sarei qui, ma non avrei questa tensione commossa a capire».
La seconda sessione sarà seicento chilometri a sud-ovest. Sul Monte Koya, luogo sacro del buddismo Shingon. Volo per Osaka, due ore di pullman. Verso la fine, si canta. Povera voce e Sakura, il canto dei fiori di ciliegio, tra le facce cordiali e un po’ stranite degli ospiti che non sono abituati a queste musiche. Marcoaldi, Amitrano, Nadia Fusini, anglista di fama. Silvio Vita, che sta a Kyoto e dirige la Scuola Italiana di studi sull’Asia Orientale. E i funzionari d’Ambasciata, come Corrado Molteni (che ha dato una mano preziosissima ad organizzare il tutto e si presterà pure come interprete, assieme a Vita).
Finite le curve e la salita (siamo a quota 850), fatto il tornante che gira attorno al grande arco rosso di ingresso, ci sei. Koyasan. Te lo aspettavi silenzioso e ritirato, una rete di pagode interrotte solo dal verde, e invece è una cittadina, strade e negozi che alle quattro di pomeriggio sono affollati di pellegrini. Gli edifici sacri sono sparsi intorno. Ce ne sono diciannove. Il primo visitato, il più imponente, il Konpon Daito con la sua facciata rossa, è uno spettacolo. Tolte le scarpe, entri in un’altra dimensione. Sedici colonne decorate, soffitti bellissimi. Cinque grandi Buddha, il maggiore in mezzo è il Centro dell’Universo. Simboli e ornamenti di una cosmologia complessa. Tutto dice di questa tensione all’assoluto che non troverà mai appagamento. Non potrebbe, se Dio non fosse sceso in terra.
Manca il fiato all’idea, mentre si cammina tra le tombe del grande cimitero di Okunoin. Duecentomila, in gran parte molto antiche. Archi, piccoli templi, colonne, statue. Ogni tanto vedi spuntare vestiti e cappelli da bimbi, lasciati a mo’ di ex voto. I corpi non riposano lì sotto, ti spiegano: vengono cremati. C’è solo il ricordo. Ma sono le immagini delle divinità a colpire di più. Tante, varissime. E quasi sempre con un volto feroce. Perché devono tenere a bada le passioni. Gli eccessi. Il desiderare troppo. Ad Aizen-myo’o, per esempio, si chiede aiuto per spegnere le passioni amorose. Ha in mano un arco e altre armi.

Pietre e carne. Habukawa racconta che don Giussani «fu molto colpito da Senju Kannon, la divinità dalle mille braccia, perché ognuna di quelle mani serve a salvare un uomo». Eccola lì, scolpita sulla pietra e poi in una delle statue più belle del museo del Koya, duecentomila reperti che danno un’idea della ricchezza di questa storia. Bella e insieme malinconica. Attraversi le tombe, vai verso il ponte che porta al Gobyo, il mausoleo dove secondo la tradizione Kobo Daishi è chiuso in meditazione perenne, ed è impossibile non ripensare a quella pagina di Giussani, alla pianura dove gli uomini si affannano a costruire un ponte verso l’alto mentre di colpo irrompe uno che dice: «Fermatevi. Il vostro tentativo è grande e nobile, ma triste...». Questo Monte è il senso religioso. Di pietre e di carne. Qualcosa da togliere il fiato quando ti rendi conto della profondità che ha, di come determini tutta la vita di qui. Il tempo. Lo spazio. I dettagli. Persino il mangiare e il bere. Tutto grida il rapporto con il Mistero. Meglio, il desiderio del Mistero. Davanti alla scala che sale all’uscio di Kobo Daishi c’è un gruppo di pellegrini in preghiera. Una via di mezzo tra mantra e litanie. La domanda di essere protetti, accompagnati. «Un grido spezzato», aveva detto don Giussani. È vero.
Ma anche la cena, in un salone del tempio Muryoko-in che ospita tutti in camere giapponesissime (tatami, futon e pareti di carta), fa pensare. Ci sono una decina di monaci qui. Tremila in tutti i templi della montagna. Il priore del monastero quest’anno è Shoken, figlio di Habukawa. Poi i più giovani, quelli che chiamare novizi sarebbe improprio. Non c’è un percorso codificato per «prendere l’abito»: dipende dalla storia del singolo, dal suo legame con il maestro, da come apprende. Ma una cosa è certa: sorridono. Almeno quelli che come Nose, 28 anni e studi di arte e design, vedi fare avanti e indietro di continuo, inginocchiandosi per servire la cena in un gesto che è più di un inchino cortese, dice un modo di rapportarsi alla realtà. Alla terra, a cui appartieni.

Cose vissute. La conferenza è nella Sala dei Dottori. Al mattino si discute di bellezza, con Sotoo («bellezza e verità sono legate: senza credere a una verità e aderire a una bellezza non ci sarebbe niente di ciò che ha fatto l’uomo sulla terra») e Shizuka Jien, direttore del museo. Al pomeriggio di educazione e maestri, in tre ore e più di dibattito ricco e denso, perché ognuno ha un’esperienza reale da proporre. Emilia parla del suo lavoro di insegnante e di cosa ha imparato da don Giussani, «che mi ha educato a bellezza e verità per insegnarmi a giudicare»; don Ambrogio di come l’incontro faccia conoscere la realtà; Marcoaldi dell’importanza di conservare le differenze nel dialogo. Ma anche la controparte giapponese racconta cose vissute, non teorie. Chiun Takahashi spiega come l’incontro con i cattolici lo abbia aiutato nel suo lavoro: costruire templi.
Intanto, ti sorprendi più volte a guardare Habukawa. Gli occhi, profondissimi e insieme bambini. E il corpo, i gesti. Il modo in cui si piega verso l’altro, quando lo guarda, voltandosi con tutto il busto, come se in quel momento davanti a sé avesse tutto. Ti immagini la scena che ti ha raccontato don Ambrogio, di un incontro a Milano: l’abbraccio, un dialogo fatto in gran parte di sguardi commossi. «Poi, davanti a un libro con una natività di Giotto, Giussani gli prende una mano e la porta ad indicare le figure. “Gesù”. E Habukawa: “Ah, Gesù...” “Maria”. “Maria...”». Semplici come bimbi, appunto. Capisci anche perché dopo un’altra visita alla sede di Cl, racconta sempre Ambrogio, «mentre la macchina di Habukawa se ne andava, Giussani si voltò verso di noi e disse: se quest’uomo fosse vissuto ai tempi di Cristo, sarebbe stato uno dei dodici».
Ma anche oggi impressiona per come si illumina quando parla dell’amico. Per come lo ha segnato. Inizierà il suo intervento, alla tavola rotonda sui maestri, così: «Il 28 giugno 1987, portando con sé una luce splendente, è arrivato tra noi don Giussani...». Quando gli chiedi chi sia don Giussani per lui, ora, risponde con uno sguardo che non potrai mai raccontare e due frasi sole: «Non posso dirlo a parole. Perché è qui, con noi».
La sera si festeggia. Scambio di regali. Canti giapponesi e napoletani. Marcoaldi intona ’O sole mio e Habukawa batte il tempo piano, con le mani. Un clima che non si spiega. «Non è una celebrazione, è un’amicizia che sta accadendo ora. Misteriosamente», dice Emilia.
Anche l’ultima tappa sarà una sorpresa. Un po’ per come è nata: Habukawa ha voluto che il movimento e il Meeting fossero conosciuti anche da un’altra scuola buddista, quella Zen del tempio Eiheiji. E molto per quello che trovi quando ci arrivi, dopo sei ore di pullman, e ti ritrovi in una visita guidata a una città della fede: tremila bonzi, 600mila visitatori l’anno. Le sale, i templi. La zona del bagno per la purificazione. Le cucine. Il salone dove i monaci fanno zazen, meditazione, tre ore e mezza al giorno fissando la parete in cerca di un infinito che alla fine coincide con il vuoto e si può raggiungere solo per sottrazione, depurandosi dalle passioni e dal pensiero stesso «perché l’ideale sarebbe non pensare nulla». Tutto è improntato alla stessa filosofia: i riti, il cibo, i gesti del lavarsi e quelli che accompagnano la tazza del tè verso la bocca, «perché se lo fai in un certo modo, pensando che stai bevendo qualcosa di vivo, che proviene dalla natura ed è della tua stessa natura, il tuo spirito cambia», spiega uno dei monaci: «E la nostra natura si esprime in ogni gesto. Dobbiamo comportarci come se fossimo noi stessi figli del divino». Come se. Fascino enorme, e un velo di tristezza.

Per il mondo intero. Però, intanto, ci si incontra. Il maestro Matsubara, guida del monastero, resta sorpreso a sentire del Meeting. Si scambiano idee sull’educazione e la responsabilità. Ci si ritrova più tardi per una cena che prende subito la piega dell’amicizia vera. Saluti, scambi di regali, ringraziamenti. E un invito a Rimini, naturalmente. Il seguito sarà tutto da vedere. La domanda dell’inizio torna potente: cosa è successo? «Che il carisma di don Giussani ha mostrato di nuovo tutta la sua profondità e la sua capacità di costruire la storia», osserva don Ambrogio. E che il Mistero «se ne serve come vuole, in maniera veramente impensabile», nota Emilia. Pensi ad Habukawa, alla foto di Giussani che ha sempre con sé e a quell’altra trovata sull’altare. Non era lì perché c’eravamo noi. È per lui. Per loro. Per il mondo intero. Ecco perché ci siamo sentiti «a casa propria e a proprio agio», anche in Giappone.