L'incontro su "La bellezza disarmata" all'Università Bicocca di Milano

Una bellezza che allarghi la ragione

Alla Bicocca di Milano un incontro organizzato dagli studenti sul compito dell'università, partendo dal libro di don Carrón. Un dialogo aperto tra l'autore e alcuni docenti dell'Ateneo, in mezzo alle domande dei ragazzi
Paola Bergamini

Mercoledì 5 aprile. Sul grande schermo dell’Aula Magna dell’Università Bicocca, a Milano, l’immagine di un bambino con gli occhi sgranati accoglie studenti e docenti che via via arrivano per l’incontro dal titolo: “Educare alla ragione nella società che cambia. Il ruolo dell’università”. Punto di partenza, La bellezza disarmata, di Julián Carrón. A confrontarsi sul tema tre docenti dell’Ateneo milanese: Adolfo Ceretti, professore di Criminologia, Gianfranco Pacchioni, prorettore per la ricerca, Paolo Cherubini, prorettore per la Didattica, e don Julián Carrón. A guidare l'incontro in rappresentanza del Rettore, la professoressa Susanna Mantovani, ordinario di Pedagogia generale e sociale dell'Ateneo.

L’input per l’inizio del dialogo arriva dalla domanda di uno degli studenti promotori dell’incontro: «Nell’incertezza del futuro non solo professionale, ma anche esistenziale - basti pensare ai fatti di cronaca - qual è la sfida, la missione ultima che l’università, come comunità accademica, composta da studenti e professori, deve affrontare?». Più che sul libro, un dialogo sull’università

Ceretti parte proprio dal titolo del libro, perché «ognuno noi di fronte al male è chiamato a opporre la sua presenza: una presenza disarmata, che non vuol dire essere inermi, ma muniti di qualcosa di profondamente bello che non sono le armi». In cosa consiste questo “qualcosa”? Innanzitutto bisogna rendersi conto che viviamo in «una società tardo moderna dove l’io rimane confuso e fluttuante e fatica a rispondere alla domanda: chi sono?». Come docente, Ceretti dialoga con «la meglio gioventù», cioè gli studenti, mentre poi come criminologo, in carcere incontra «la peggio gioventù». Eppure in questi due “universi” quello che emerge è la «poca vibrazione dell’io, cioè che tipo di concezione un ragazzo ha del valore di se stesso».

In questo si vede cosa significa «allargare la ragione». C’è bisogno di maestri, cioè di qualcuno che dal di fuori dei propri pensieri, della propria capacità ridotta di guardare sé offra all’uomo la possibilità di diventare se stesso. C’è bisogno di incontri, di relazioni dense di aspettative. Proprio nel dialogo con la “meglio gioventù” di chi inizia ad addentrarsi nel campo del crimine, del reato prevalgono spesso domande stereotipate, dettate dal mondo virtuale. Ma, cosa peggiore, si pensa che proprio nel web è possibile trovare tutte le risposte e che la conoscenza possa ridursi a un ammasso di dati “scaricabili”. Andare a lezione diventa quasi inutile e si finisce così per cadere in un fragile solipsismo. Mentre è proprio in aula, nel rapporto tra studenti e professore, che avviene quel qualcosa in più che “allarga” perché «insegnare significa sapere che le persone che stanno di fronte a noi attendono una passione che colmi una domanda di conoscenza che libri e web da soli non possono dare».

Per Pacchioni, il presupposto da cui iniziare a riflettere è che la società sta vivendo un cambiamento epocale con una rapidità mai avvenuta prima. Tutti sono in comunicazione con tutti. L’università è un luogo di conoscenza che però non può limitarsi a fornire nozioni tecnico-scientifiche in vista del lavoro futuro, non sufficienti ad affrontare il cambiamento in atto. «Non a caso il motto della nostra università è: “Scegli di essere”. Questo deve diventare il nostro obiettivo primario, non basta la specificità tecnica».

Nel suo intervento Cherubini offre alcuni spunti, dei flash su cui riflettere. Anzitutto di cosa si ragiona? Di opinioni, di conoscenze, di decisioni e delle loro eventuali conseguenze. «Il termine “ragione” non ha in sé un’implicazione di valore: ci sono buone e cattive ragioni». E chi ne determina la bontà o meno ci indurrà a credere, pensare o fare una cosa piuttosto che un’altra. Cosa chiamiamo razionale? Ciò che ha buone ragioni. Ogni essere umano è dotato di ragione, di pensiero, ma entrambi questi fattori non sono disincarnati. «S’impara solo per esperienza, attraverso stimoli che vengono dati. Dopo subentra la razionalità come conseguenza delle cose coerenti che io penso». In un contesto del genere, quindi, il compito dell’università è soprattutto uno: «Educare a riflettere».

L’ultimo a intervenire è don Carrón che ribadisce che il libro ha voluto dare un contributo per comprendere il cambiamento d’epoca, a capire se la fede dà un contributo. Ma la questione cruciale rimane «creare soggetti in grado di stare nel reale con tutti i fattori del vivere, compresa la fragilità». In questo si gioca il compito dell’università perché «l’emergenza più significativa è quella educativa. Nel rapporto professore/studente si gioca questa sfida: per il docente di suscitare interesse e per lo studente di porre domande».

Al termine dell’incontro c’è spazio per le domande degli studenti. Come allargare la ragione di fronte, per esempio, al libro da studiare? Come non avere un atteggiamento passivo? Per tutti i relatori la risposta è univoca: coinvolgersi. «Cercate di usarmi!». Reagisce provocatoriamente il professor Pacchioni. «L’aula è la mia comunità accademica. Il rischio, un domani, è di non avere nemmeno la presenza fisica di docenti, ma solo video specifici della materia!». Aggiunge Ceretti: «Come professori dobbiamo mettere nelle condizioni di essere riflessivi. Cioè chiederci: cosa faccio nelle nozioni che sto imparando?».

Si è ormai ai saluti quando uno studente chiede ancora il microfono. «Don Carrón ha parlato di reale. Ma cosa è questo “reale”?». «Tutto ciò che ti provoca: dalla tua fidanzata, alla tua mamma. È necessario essere attivi, attenti perché l’attrattiva del reale non ci lasci indifferenti». Il sasso è lanciato.