Una scena del film "Will Hunting".

I teacher drama, specchio degli adulti

Una piccola vetrina di film per scoprire come il grande schermo ha affrontato il tema dell'educazione. Insegnanti positivi e generosi, le difficoltà nel comunicare il bene e la paura di sbagliare. Tutti "fili rossi", ma con esiti molto diversi...
Maurizio Crippa

«Si limiti a insegnare, non a educare nostra figlia». È la frase chiave del bel film canadese Monsieur Lazhar, di Philippe Falardeau, storia di un supplente che entra in una scuola elementare di Montreal e con la forza naturale della ragione e del cuore ne scardina i fasulli meccanismi, imbevuti di una “correttezza” che impedisce ogni vero rapporto umano, educativo e no. Ma perché, poi, riconosciamo subito quella frase, appena la sentiamo pronunciare, come la chiave del film? Forse perché abbiamo a cuore la libertà di educazione, di certo perché sappiamo per esperienza quanto l’educazione vissuta come rapporto totale sia determinante per ciascuno. Ma anche chi non ha mai riflettuto su tutto ciò, rimane colpito da quel film e da quella frase. Il fatto è che evoca una domanda cruciale dei nostri anni. E non ci sono di mezzo “loro”, i bambini, ci siamo di mezzo tutti. Educare o istruire, in fondo, è la differenza tra credere che ci sia un bene cui il nostro cuore tende e una strada su cui “confusamente” incamminarsi per raggiungerlo. Oppure, che la vita sia solo una serie di trappole da evitare, di piccoli nulla da oltrepassare. Forse è per questo che i film che “parlano della scuola”, anche quando non sono un granché, spesso commuovono.

I film sulla scuola, osservati con attenzione, sono sempre uno specchio di quel che una società pensa di se stessa e della sua consapevolezza, o meno, di essere adulta: cioè di saper generare. Gli americani, che hanno sempre un genere per incasellare tutto, li chiamano teacher drama: quanti film ricordiamo in cui il protagonista è un insegnante, positivo e generoso, alle prese con ragazzi difficili? Ci sono grandi classici che non ci si stanca di rivedere, come Il seme della violenza, di Peter Brooks con Gleen Ford, manifesto di un’America che si interrogava su come trasmettere i suoi valori ai suoi figli più difficili nella periferia dura di New York. Fino a un film bello e cupo della passata stagione, Detachment di Tony Kaye, che ne sembra il proseguimento decenni dopo: ma senza più alcuna speranza. Oggi i film che parlano della scuola sembrano spesso nascondere un senso di colpa: anche nel migliore dei casi, cosa possiamo trasmettere, di vero e di buono? È il caso di La classe, il film di taglio “neorealista” del francese Laurent Cantet, Palma d’oro a Cannes nel 2008, in cui un insegnante appassionato è alle prese con la situazione difficile delle nostre società multietniche, violente, disgregate. Il suo tentativo generoso è trasmettere ai ragazzi la possibilità di un linguaggio comune come unico strumento per la convivenza. Ma come possono far percepire il bene e il bello, ciò che ci accomuna, le nostre società che non sanno più tradere se stesse?

Educare può essere anche una tremenda pretesa. Quando diventa un sovrapporre se stessi a qualunque costo. A costo di far morire, e non solo metaforicamente, il bene che trabocca nel cuore dei giovani. È il caso di un film di culto, L’attimo fuggente di Peter Weir.
Dosi abbondanti di buoni sentimenti, ribellismo e poesia - un cocktail facile da bere ma che ti sballa peggio dello spritz - il film di Weir in realtà offre un’immagine completamente negativa degli adulti (insegnanti formali e genitori che non sanno comprendere il desiderio che c’è nel cuore dei figli), ma vi oppone come positiva l’immagine di un adulto, il professor Keating, che sembra l’unico capace di coinvolgersi con i suoi studenti. In realtà, si limita a suscitare in loro un’esasperazione di quel desiderio, senza poi saperli accompagnare, e senza comunicare loro la possibilità che ci sia risposta a quel desiderio (è «la società dei poeti morti»), né la pazienza di una strada. Così l’esito non può essere che tragico, nichilista. Ma è indicativo, e sconfortante, che un simile apologo sia stato interpretato invece come esempio del meglio che la scuola possa offrire: un’utopia destinata a fallire.

Difficile, nell’orizzonte culturale delle nostre società, anche solo l’intuizione che le cose possano stare diversamente. E il modo in cui viene solitamente guardata la scuola ne è la spia: Entre le murs, è il titolo originale del film di Cantet: fra quei muri, isolati, un «mondo a parte». Eppure qualche film che testimonia la possibilità di una strada diversa, e la necessità umana di percorrerla tentativamente insieme, c’è. L’uomo senza volto di Mel Gibson, significativamente non è “sulla scuola”, è una bella esemplificazione del rapporto educativo: tra un ragazzo che cerca istruzione e un ex insegnante, segnato dal dolore, che istruzioni non vorrebbe darne. Ma mentre gli altri adulti si rivelano solo inadeguati a prendere sul serio il ragazzo (al massimo è roba da psicologi), per “l’uomo senza volto”, colui che per tutti è un professore fallito (forse non dava bene le istruzioni), la sfida è irrinunciabile, e proprio a quel livello. Accade qualcosa di simile anche in Will Hunting, di Gus Van Sant, ambientato al Mit di Boston, storia di un genio “naturale” che si ribella al suo genio (all’università si contenta di essere un inserviente) e di un professore che tenta non già di trasformarlo in un fenomeno della matematica, ma di fargli scoprire le sue potenzialità umane. In fondo, la storia del bisogno di essere padri e figli.

Spesso, se c’è una cosa che i film sulla scuola evidenziano, è però l’inadeguatezza degli adulti, la paura di concepirsi come tali: come se il “rischio” educativo fosse quello di far del male a chi si ha di fronte. Non essere certi di un bene per sé, provoca la paura di non saper comunicare un bene ai giovani. È il senso di Detachment, in cui non a caso il supplente protagonista (quanti supplenti, nei teacher drama: come dire che per chi è nuovo è più facile accusare il colpo della realtà; ma è anche avanzare un dubbio sulla definitività di un rapporto) è un adulto disturbato, inadeguato, che si porta dietro a sua volta una storia difficile e violente. In fondo, è la stessa condizione di Monsieur Lazhar. La differenza è che il maestro Bachir riesce a vivere questo dramma con umanità, senza il sospetto - che invece i suoi colleghi hanno stampato in faccia - che sia impossibile condividere l’umano. Cosa che invece non riescono proprio a fare - pur dentro i limiti di una commediola più banale - i protagonisti di Il Rosso e il blu, il film di Giuseppe Piccioni che sta riscuotendo in questi giorni successo nelle sale italiane. Anche lì una schiera di adulti rattrappita, e i ragazzi diventano il pretesto per mettere in scena i malanni irrisolti del rapporto con la propria umanità. Alla fine di Detachment c’è la foto di un professore senza volto, il contrario dell’uomo sfigurato di Mel Gibson, che alla fine il suo vero volto lo scopre, nel rapporto con un ragazzo che voleva solo imparare.