Natale: il mistero della tenerezza di Dio

Pagina Uno
Luigi Giussani

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani a un ritiro dei Memores Domini. Pianazze, 6 gennaio 1974



Vorrei riprendere i due temi che ci sono stati indicati dalla liturgia di ieri sera1. Vorrei che pregassimo il Signore, affinché ci dia la grazia di afferrare vitalmente queste parole, perché veramente sono i termini già sperimentabili della vita nuova, della realtà nuova, dell’uomo nuovo.
1. La certezza della vita è Uno che ci è accaduto
Ieri sera parlavamo della certezza; certezza come consistenza di quello che siamo, come consistenza della nostra persona, del nostro tempo, come identità nostra. Normalmente - facciamo questa premessa, riflettiamo su questo antecedente, dentro il quale si insedia la misericordia di Dio - questa consistenza, questa identità, noi la cerchiamo in quello che facciamo o in quello che abbiamo, che è lo stesso. Così, la nostra vita non ha mai quel sentimento, quell’esperienza della certezza piena, che la parola “pace” indica, quella certezza e quella pienezza - per fare un’endiadi -, quella certezza piena, quella certezza e quella pienezza senza della quale non c’è pace e perciò non c’è allegrezza e non c’è gioia. Al massimo, noi arriviamo al compiacimento in quello che facciamo o al compiacimento in noi stessi. E questi frammenti di compiacimento in quello che facciamo o in quello che siamo non recano nessuna allegrezza e nessuna gioia, nessun senso di pienezza sicuro, nessuna certezza e nessuna pienezza.
Partendo da questa premessa, da questa registrazione del nostro atteggiamento naturale, come possiamo comprendere di più, se lo Spirito ci illumina e ci sostiene l’animo, l’affermazione che la certezza nella nostra vita è qualcosa che è avvenuto a noi! La certezza è qualche cosa che è avvenuto a noi, accaduto a noi, entrato in noi, incontrato da noi: la certezza come qualcosa di avvenuto a noi. La nostra identità, la consistenza della nostra persona, la certezza del tempo coincide - letteralmente “coincide” - con questo qualcosa che ci è avvenuto. Emmanuel Mounier, parlando di sua figlia ammalata, dopo aver detto: «Qualcosa ci è accaduto», si corregge e dice: «Uno ci è accaduto»2.
La parola “incontro” è ancora leggermente esteriore. Infatti, riflette la modalità esterna e contingente in cui l’avvenimento si è posto, ma non rappresenta il contenuto, non indica il contenuto dell’avvenimento stesso. Uno ci è accaduto, ci si è dato, dato tanto da inserirsi nella carne e nelle ossa e nell’anima: «Vivo, non io, ma è questo che vive in me»3.
Ma ciò su cui vogliamo portare la nostra attenzione è la certezza, quell’aspetto di certezza che ha sorpreso i pastori, trovandosi davanti a quello che era stato loro preannunciato dagli angeli, vedendoselo là: la certezza, la certezza della vita in ciò che ci è accaduto, la certezza come qualcosa di avvenuto, quello che ci è avvenuto.
Le parole “vocazione” e “immedesimazione”, forse, dicono un po’ di meno, dal punto di vista della certezza che si introduce nella nostra vita, del fatto che è un Altro che si introduce nella nostra vita, della parola “scelta”. Più ancora che immedesimazione o, addirittura, vocazione (che sarebbe, indubbiamente, la parola più adeguata, se però venisse totalmente spogliata della vaghezza, dell’astrattezza, della sentimentalità, della vanità di suono che essa riflette nei nostri orecchi), è proprio la parola “scelta” la più appropriata, la parola “essere toccato” ed “eletto”, “sigillato”: «Io ho posto il mio sigillo su di te»4. Del resto, “sigillo” è la parola che si usa per i sacramenti fondamentali, costitutivi dell’essere cristiano: il sigillo che ci dà il carattere del Battesimo e della Cresima, che vuol dire un cambiamento dell’essere nostro. Questo cambiamento dell’essere è la presenza di un Altro.
Dobbiamo immedesimarci. Come è importante il cuore aperto, la semplicità del cuore e la povertà del cuore, per afferrare bene questi momenti, per sapersi immedesimare! Nella misura in cui non siamo poveri di spirito, non ci immedesimiamo con niente, perché immedesimarsi vuol dire abbandonare la posizione in cui si è. Dobbiamo immedesimarci con Maria del capitolo primo di san Luca o coi pastori del capitolo secondo di san Luca o coi Magi del capitolo secondo di san Matteo. Giustamente la Messa di oggi ci richiama il terzo capitolo della lettera agli Efesini,5 un brano di quei tre fantastici capitoli in cui è ridetto il contenuto di quello che ci è accaduto, della scelta e della vocazione che ci è stata data. La verginità è la perfezione della vocazione che ha costituito la venuta di Cristo nella vita dell’uomo.
Perciò leggendo questi brani, rileggendo o riguardando questi brani del vangelo, dobbiamo soffermarci (chiedendo allo Spirito la grazia di saperlo fare) in una esperienza di immedesimazione con la realtà di Maria, dei pastori, dei Magi: “presi”, la loro identità è in ciò che sta accadendo, è in ciò che è accaduto, meglio. La loro identità è in ciò che è accaduto. È il disegno di cui parla la lettera agli Efesini: «Questo Mistero, non manifestato agli uomini delle precedenti generazioni, è stato al presente rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che tutti siamo chiamati a formare lo stesso corpo»6.
La parola “predilezione”, nel suo senso etimologico, significa essere amati prima che ce ne accorgiamo, essere amati prima della nostra risposta, quell’essere amati che pone un dato di fatto irreversibile, quell’essere amati che definisce il nostro valore nel mondo. Essere amati, cioè essere dentro il Suo disegno, essere Suo disegno. Come è diverso dall’esperienza naturale a cui troppe volte forse noi ci arrestiamo, mentre essa è soltanto come la profezia, la premessa, l’introduzione, quella che dispone l’animo a capire la densità e la profondità con cui il Signore si è dato a me, fino a diventare ciò che mi costituisce! Come è diverso il rapporto di ciò che è accaduto con Maria, coi pastori, coi Magi, dal nesso che l’esperienza naturale ci fa sentire verso il Mistero che ci crea!
San Bernardo diceva: «In primo luogo, l’uomo ama se stesso per se stesso [l’immediatezza istintiva] e non capisce nient’altro che sé, al di fuori di sé; ma quando incomincia a capire che da sé non riesce neanche a sussistere, allora incomincia, attraverso l’indagine e la fede, ad amare Dio come qualcosa di necessario a sé»7. Il nesso col Mistero a livello d’esperienza naturale è ancora una nostra azione, come dicevamo prima, qualcosa che parte da noi; e al massimo ci possiamo compiacere di queste osservazioni, ma non ci possono dare certezza, pienezza e pace.
L’uomo, pur in questa intuizione, rimane meschino, perché la meschinità è la caratteristica dell’uomo che venga concepito come avente consistenza in se stesso. La meschinità è la brevità della misura. Tant’è vero che questa religiosità naturale pretende da Dio, si lamenta di Dio, e tende a far Dio a sua immagine e somiglianza. Anche se, nei suoi momenti più puri, nei suoi momenti più autentici, per frammento, presènte con una certa purità quello che Dio è per 1’uomo. Come quando Tagore dice: «I tuoi secoli si susseguono per rendere perfetto un piccolo fiore selvatico»8, perché per avere la sua fisionomia, un piccolo fiore selvatico ha bisogno di tutta l’evoluzione di secoli e di millenni. E così, quasi per frammento fugace, la realtà come disegno di Dio viene presentita.
Ma adesso “diventiamo” uno dei pastori: che concretezza, che invadenza, che imponenza totalmente diversa! Per cui quelli sono “ragionamenti”, come - non so - i ragionamenti là dove uno stesse mangiando a quattro palmenti una buona cosa con molta fame, o come se uno pretendesse ragionare in un abbraccio; quando si ragiona in un abbraccio è o perché non c’è amore o perché c’è un amore più profondo che invita alla mortificazione di una strada, di un cammino prefissato.
Non è il vago e generico rapporto dell’uomo naturale con il Mistero, con Dio, ma è qualche cosa di totalmente nuovo, di cui il paragone meno lontano è l’imbattersi improvviso con la persona amata, con una persona sicura, che offre un aiuto sicuro in un momento di smarrimento, di buio, di distruzione, di collasso.
Ma il punto non è neanche nel rapporto di utilità che questi paragoni fanno sentire: è il contraccolpo che il cuore di Maria deve aver sentito in quel momento, doveva sentire tutte le volte che prendeva coscienza di quello che era accaduto, di quello che aveva addosso (perché ne prendeva sempre più coscienza, come indica in più di un punto il santo evangelo: che la Madonna rimuginava dentro di sé quello che era accaduto)9, o quello che hanno sentito i pastori, o quello che sentivano i Magi man mano che camminavano verso la Giudea con la coscienza di quello che era stato loro annunciato, in qualche modo. È la posizione di queste persone, ecco, è con questo che dobbiamo immedesimarci. Anche se l’annuncio si era instaurato sulla loro realtà umana di pastori che, attraverso la lettura semplice dei profeti, aspiravano a qualche cosa; anche se la Madonna viveva di questa meditazione; anche se i Magi vivevano di questa attesa, ciò che era accaduto si palesava loro come qualcosa che bruciava anche la coscienza dell’attesa, che in primo luogo non era risposta all’attesa, ma era una presenza invadente.

È quello che san Bernardo indica come il quarto grado dell’amore di Dio. Quello che ho letto prima era il primo: che l’uomo, amando se stesso e accorgendosi di non sussistere da sé, allora incomincia a cercare Dio e ad amare Dio. Ma questa è opera dell’uomo. Diverso è invece quello che ho cercato di indicare poco fa: questo atteggiamento di Maria, questa folgorazione, questa impressione (certo, è soltanto l’esperienza della propria vita che può suggerire paragoni che facciano capire questi richiami, oppure, con molta più semplicità, è il suggerimento dello Spirito), questo atteggiamento della Madonna, dei pastori e dei Magi, per i quali ciò che era accaduto dominava i loro occhi e il loro cuore, dominava la coscienza di loro stessi. Davanti al bambino, quel bambino era loro stessi, era la loro identità, la loro certezza, la loro pienezza, e non ricordavano più quel che era stato prima. Non ricordavano più, davanti a quel bambino, neanche le loro aspirazioni, non ragionavano più neanche su quelle, perché era quel bambino che dettava oramai tutto.
Certamente, se i pastori o la Madonna o i Magi fossero andati nel loro studio, a casa, a preparare la lezione di scuola di religione per l’indomani, avrebbero allora riflesso e detto: «Ecco, questo bambino risponde a tutti i sentimenti che avevamo prima e che avete anche voi, scolari miei». Ma è soltanto un momento riflesso, contingente, non essenziale; che diventa essenziale in un altro momento, diventa essenziale solo nella missione. La missione è, come dire, l’immedesimazione con gli altri di questa immedesimazione con Cristo, è l’immedesimazione con gli uomini di questa immedesimazione con Cristo che sono io.
San Bernardo, dunque, nel descrivere il quarto grado dell’amore di Dio, dice che allora l’uomo «ama se stesso solo per Dio»10. Questo per è per noi fragile e tremante come carta velina, mentre qui sono pioli grossi, sono colonne. «Ama se stesso soltanto per Dio»: è lo stesso di quanto abbiamo detto prima, quando abbiamo affermato che quello che è accaduto è la mia identità; allora, se io amo quello che è accaduto, amo me stesso, perché quello che è accaduto è la mia identità.


2. La tenerezza: l’immedesimarsi di Dio
con la nostra carne

Ecco allora una conseguenza, che è come il secondo passo in questa prima parola, la certezza, che la liturgia di questi giorni ci dice; la certezza e la pienezza di noi non in quello che facciamo - che giunge al compiacimento effimero -, ma la certezza e la pienezza in quello che ci è accaduto, che ci fa giungere alla allegrezza e alla gioia.
Il secondo passo, quello che sta alla radice di tale allegrezza e di tale gioia, è la parola “tenerezza”, perché il Natale è il mistero della tenerezza, della tenerezza di Dio a me. Tenerezza che non è compiacimento nel sentimento che proviamo di Dio o di Cristo, perché il compiacimento nel sentimento che provo è ancora quello che ho detto in principio, vale a dire il compiacimento di quello che facciamo noi. Tenerezza non è compiacimento nel sentimento che proviamo, ma l’abbandonarsi, il sentirsi presi dall’amore che ci ha presi, da Colui che ci ha presi, il sentirsi presi da questa Presenza, il sentirsi presi da ciò che ci è accaduto, la presenza di ciò che è accaduto.

È come quando il bambino sgrana gli occhi ed è tutto pieno di ciò che vede e non ha spazio da dare al sentimento che prova, o alla coscienza di un sentimento che prova; di fronte a ciò che vede, è tutto pieno di ciò che vede. «Se diligit homo tantum propter Deum»11, l’uomo ama se stesso solo per questo che ha davanti, in Cristo, in questo che ha davanti, in questo avvenimento.
Ma ciò su cui voglio che fermiate l’attenzione è proprio la parola “tenerezza”, perché questa immedesimazione, questo immedesimarsi di Dio, del Verbo, del Mistero con la nostra carne, questo immedesimarsi di questo Verbo incarnato, di questa carne divina, di questo Uomo con noi, con me, è tenerezza un milione di volte più grande, più acuta, più penetrante dell’abbraccio di un uomo alla sua donna, di un fratello al fratello.
Queste cose non si comprendono ragionando, ma guardando le parole che indicano sinteticamente l’esperienza cui si vuole accennare; ed è necessario, allora, dire più di una parola. Bisogna guardare questa parola - tenerezza - all’interno della coscienza di questa identità tra me e Te, di Te con me, meglio, all’interno della coscienza di questo avvenimento che si è insediato in me, di questo «Tu che sei me».
Anche qui, l’istinto religioso, aizzato dai termini cristiani in cui era nato, fa sentire a Dostoevskij molte cose giuste. Ne I fratelli Karamazov fa parlare così il giovane monaco: «Nella sua ardente preghiera Alës?a non chiedeva a Dio di chiarirgli il suo turbamento [perché era in un momento di tentazione], ma bramava unicamente la gioiosa tenerezza, la tenerezza di sempre che non mancava di visitargli l’anima dopo la lode e l’esaltazione di Dio, nelle quali consisteva di solito tutta la sua preghiera alla vigilia di dormire. Questa gioia, che soleva così visitarlo, si conduceva dietro perfino un sonno lieve e tranquillo»12.

È vero che la caratteristica di tutte le intuizioni giuste, al di fuori dell’equilibrio che unicamente c’è nell’esperienza della Chiesa - della Chiesa vera di Cristo, la Chiesa di Roma, la Chiesa cattolica -, è sempre una ridondanza, una unilateralità, una esagerazione; quasi che questa gioia, per esistere, debba sempre portarsi dietro un «sonno lieve e tranquillo» o che questa tenerezza sia necessariamente una sensibilità particolare dopo le «lodi e l’esaltazione di Dio». Ma se c’è la possibilità di una “smarginazione”, di un debordamento (come quando il latte bollente vien fuori un po’ dalla pentola), l’essenza dell’osservazione, però, è giustissima e ognuno di noi, spero, ne può dare atto. «Nella sua ardente preghiera non chiedeva a Dio di chiarirgli il suo turbamento, ma bramava unicamente la gioiosa tenerezza, la tenerezza di sempre che non mancava di visitargli l’anima dopo la lode e l’esaltazione di Dio».
Ma come questa tenerezza è indicata in un modo più consistente e concreto, più “in atto”, nelle ultime parole di santa Chiara all’anima sua in punto di morte! «Va’ in pace, perché haverai bona scorta, però che quello che te creò, innanti ti previdde da essere santificata, et poiche te hebbe creata, infuse in te lo Spiritu Santo; et poi te ha guardata come la madre lo suo figliolo piccholino»13; vai in pace, perché avrai una buona compagnia, perché Quello che ti ha creato, prima che tu lo potessi pensare, prima che tu lo potessi immaginare, ti ha prevista per la santità e, dopo che ti ebbe creata, ti ha infuso lo Spirito Santo e poi «te ha guardata come la madre lo suo figliolo piccholino».
Queste parole scadono immediatamente, se rimangono fuori di quello che abbiamo detto, se cessano in qualche modo di essere o se annebbiano quello che sono, cioè l’indice di ciò che è avvenuto: perché la nostra certezza e la nostra pienezza, la nostra identità e la nostra consistenza è qualcosa che ci è avvenuto, Uno che ci è avvenuto e che ci ha detto: «Vieni con me, vieni e seguimi», come nel vangelo del primo capitolo di san Giovanni. Per cui, oltre alle figure di Maria, dei pastori, dei Magi, dobbiamo rileggere il primo capitolo di san Giovanni dal versetto 35 alla fine, immedesimandoci con Giovanni e Andrea, con Simone figlio di Giona, con Filippo e con Natanaele: ma capite che - per Natanaele - in quel momento del vangelo di ieri sera, quello che aveva davanti era invadente e gli toglieva tutta quanta l’attenzione a se stesso, esattamente come il bambino che ha gli occhi pieni di quel che vede?


3. L’inclusività e la
libertà dalla schiavitù
del peccato

Ci sono due corollari di questa conseguenza della certezza che è la tenerezza. “Tenerezza”: l’essere voluto, l’essere stato guardato e scelto, il sentirsi dire come Zaccheo: «Vengo a casa tua»,14 il sentirsi dire come il buon ladrone: «Sarai sempre con me»15, «e poi te ha guardato...».
Il primo corollario è l’inclusività di questa tenerezza. Questa tenerezza, cioè, ha il suo vertice, il suo ideale di purità, non nell’escludere persone e cose, ma nell’includere persone e cose. Nel suo La teologia mistica di San Bernardo, commentata da Hayen, Gilson sintetizza così il pensiero di san Bernardo a questo proposito: «Non la aridità [cioè il tagliar via] e il languore purifica l’amore, ma l’ardore» e Hayen commenta: «… ma questa purezza è essenzialmente inclusiva (…); l’amore di Dio non è perfetto se non includendo tutto ciò che lo stesso amore creatore del Padre onnipotente include»16. Quello che purifica la tenerezza, quello che purifica l’amore a Cristo non è l’aridità o il languore, ma è l’ardore che include, che tende ad includere tutto ciò che il Padre ha creato e secondo come il Padre l’ha creato.

«Non l’aridità e il languore purifica l’amore, ma l’ardore»: l’ardore - è chiaro - non teso, non determinato dalle cose e dalle persone, ma dalla Presenza. L’inclusività di questo amore, di questo ardore, significa che si esalta anche 1’ardore verso le cose e le persone. Ma l’esaltarsi puro di questo ardore verso le cose e le persone è conseguenza della certezza e della pienezza che uno vive, è conseguenza dell’allegrezza e della gioia che uno vive, è conseguenza della tenerezza che è una sola: la tenerezza certa e piena, fatta di certezza e di pienezza, che è quella che ha come oggetto il fiat della Madonna o il credito immediato fatto dai pastori o l’ammirazione dei pastori, o l’ammirazione dei Magi, o l’ammirazione di Giovanni, di Andrea, di Simone, di Filippo e di Natanaele.

«Essere puro vuol dire essere puro da qualsiasi impedimento»17, dice ancora Hayen, cioè che le cose e le persone siano dunque amate in modo tale che non siano impedimento. E se non debbono essere impedimento, non debbono essere amate per un motivo fuori di questa cosa che ho addosso. Se non debbono essere di impedimento, debbono essere afferrate al di dentro di questa tenerezza. È analogo, in questo caso, a quello che abbiamo detto in principio, a quella frase di san Bernardo detta in principio, vale a dire che l’uomo, vedendo che lui non può sussistere da sé, allora cerca Dio. È analogo, dico, anche il ragionamento, l’osservazione che si può fare a questo punto, perché non c’è tenerezza che possa sussistere, che possa avere la padronanza del tempo, perciò né certezza né pienezza; quello che esalta l’amore alle cose e alle persone è proprio questa certezza e questa pienezza che sei «Tu che sei me». «Essere puro vuol dire essere puro da qualsiasi impedimento, libero da ogni principio di limitazione che coarti la pienezza dell’essere». Cos’è la pienezza dell’essere? La coscienza di quello che mi è accaduto, la coscienza della Tua Presenza, Tu.
Il secondo corollario della tenerezza è che il peccato, il nostro peccato non diventa più determinante, non ci tiene più schiavi.
Vi voglio leggere altri due brani di Dostoevskij. Tenete presente l’osservazione circa il debordamento, come il latte che bolle e che va fuori. Sono brani preziosissimi, se sono letti dentro l’occhio netto e chiaro e sicuro dell’esperienza cristiana, dell’esperienza cattolica, della nostra esperienza. Però, come è grande Iddio che ci fa capire noi stessi proprio dalla scoperta degli altri! «Amatevi gli uni gli altri [è il discorso che sta facendo ai monaci lo starets Zosima], padri, amate le creature di Dio. Noi non siamo più santi dei secolari per il fatto di essere venuti qui a rinchiuderci tra queste mura, ma, anzi, ognuno che è venuto qui, per il fatto stesso che ci è venuto, ha riconosciuto di essere peggiore di tutti i secolari e di chicchessia sulla terra, e quanto più a lungo poi vivrà il religioso fra le sue mura, tanto più caldamente dovrà riconoscere questo, giacché, in caso contrario, non ci sarebbe neppure ragione che egli fosse venuto qui. Quando invece riconoscerà non solo di essere peggiore di tutti i secolari, ma di essere di fronte a tutti gli uomini colpevole per tutti e per ciascuno di tutti i peccati umani collettivi e individuali, allora soltanto lo scopo di questa nostra vita sarà raggiunto [Cristo in croce: “Egli che non aveva commesso peccato, il Padre lo ha fatto peccato”18, dice san Paolo]. Sappiate infatti, o diletti, che ogni cenobita come noi risponde senza meno delle colpe di tutti e di ciascuno sulla terra, non solo della generica colpa del secolo, ma ognuno personalmente per tutti gli uomini e per ciascun uomo vivente sulla terra. Questa consapevolezza è la corona della vita religiosa, come del resto di qualunque uomo sulla terra perché i religiosi non sono già uomini diversi dagli altri, ma tali semplicemente quali tutti gli uomini della terra dovrebbero essere. Soltanto allora il nostro cuore saprà dilatarsi di un amore infinito, universale e insaziabile. Allora ciascuno di noi avrà la forza di conquistare il mondo intero con l’amore e mediante le proprie lagrime lavare i peccati del mondo»19. Questo è perfetto da qualunque punto di vista (ricordate Emmanuel Mounier che parla di sua figlia ammalata). E non è finzione quando dice che «siamo venuti qui perché ci siamo riconosciuti i peggiori tra gli uomini»!
Secondo brano. «Perché si dovrebbe aver pietà di me? dici tu. Perché? È vero, non ce n’è motivo di avere pietà di me, bisogna crocifiggermi, non già compiangermi. Ebbene, mettimi in croce, giudicami, ma nel mettermi in croce abbi pietà di me. E allora io andrò incontro al mio supplizio volontieri, perché io non ho sete di gioia, ma di dolore e di pianto... Ma colui che ebbe pietà di me, ma colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che comprese tutto avrà certamente pietà di noi. È l’unico giudice che esista. Egli verrà nell’ultimo giorno e domanderà: “Dov’è la figliola che si è sacrificata per una matrigna astiosa e tisica e per dei bambini che non sono i suoi fratelli? Dov’è la figliola che ebbe pietà del suo padre terrestre e non respinse con orrore quell’ignobile beone?”. Ed Egli dirà: “Vieni, ti ho già perdonato una volta, e ancora ti perdono tutti i tuoi peccati, perché hai molto amato”. Così Egli perdonerà alla sua Sonia, le perdonerà, io lo so, poc’anzi l’ho sentito qui nel cuore, mentre ero da lei. Tutti saranno giudicati da Lui ed Egli perdonerà a tutti, ai buoni e ai malvagi, ai savi e ai miti. E quando avrà finito di perdonare agli altri perdonerà anche a noi. “Avvicinatevi voi pure”, ci dirà, “Venite, ubriaconi; venite, viziosi; venite, lussuriosi” e noi ci avvicineremo a Lui, tutti, senza timore, e ci dirà ancora: “Siete porci; siete uguali alle bestie, ma venite lo stesso”. E i saggi, gli intelligenti, diranno: “Signore, perché accogli costoro?”. Ed Egli risponderà: “Li accolgo, o savi, io li accolgo, o intelligenti, perché nessuno di loro si credette degno di questo favore”, e ci tenderà le braccia e noi ci precipiteremo sul suo seno e piangeremo dirottamente e capiremo tutto. Allora tutto sarà compreso da tutti e anche Katerina Ivanovna comprenderà, anche lei. O Signore, venga il tuo regno”»20.
Ho letto il brano per quest’ultima frase: «E ci tenderà le braccia e noi ci precipiteremo sul suo seno e piangeremo dirottamente e capiremo tutto. Allora tutto sarà compreso da tutti». Questo - che è vero dentro il mistero della giustizia di Dio, ma che è vero come aspirazione, che è vero perché suggerito dalla misericordia di Dio -, per chi è chiamato nel seno della Chiesa come noi, per chi ha la vocazione cristiana autentica come noi, per chi ha una vocazione alla verginità come noi, è in questo mondo che avviene, è in questo mondo che incomincia ad avvenire, è in questo mondo che Egli ci tende le braccia. Dostoevskij non aveva la coscienza dell’avvenimento come l’abbiamo noi, non aveva coscienza che la sua identità era il Fatto che era accaduto, ne subiva soltanto il riflesso e, giustamente, il riflesso buono, si limitava all’atteggiamento che il ricordo di Cristo incute. Questa «fine del mondo» è pensata e prevista per noi come l’avvenimento che è già accaduto.
Capite che, allora, come dice san Giovanni nella sua prima lettera, «ci purifichiamo come Egli è puro»21, perché in questo momento descritto da Delitto e castigo di Dostoevskij, in questa fine del mondo così concepita, è impossibile amare il peccato, è impossibile progettare il peccato, è impossibile voler tenere il peccato!? Questo avvenimento, l’avvenimento di questo perdono, è continuo: per questo la non schiavitù dal peccato implica il fatto che il nostro errore non ci tiene mai sotto di sé fino a diventare programma per noi, legame per noi. L’avvenimento di questo perdono è continuo, tanto da farci chiedere con tutto il cuore, desiderare con tutto il cuore, che Dio ci liberi anche dalla tentazione, come chiede il Padre nostro. Il male rimane male, anzi è soltanto in questo contesto che lo capiamo. Perché «ci precipiteremo sul suo seno e piangeremo dirottamente e capiremo tutto»? Perché piangere dirottamente? Perché capiremo cos’è il male e il peccato. E noi lo comprendiamo subito, cos’è il male ed il peccato, perché, come dice ancora quel genio dello spirito che è san Bernardo, «unde anima dissimilis Deo, unde dissimilis et sibi»22, là dove l’anima si fa dissimile da Cristo, diventa dissimile da se stessa. Cioè, non c’è opposizione tra l’amor di Dio e l’amor di sé, proprio perché la nostra identità è Cristo, è l’avvenimento che ci è accaduto. E, infatti, è proprio il peccato, è proprio l’errore che interviene nella nostra certezza, nella nostra pienezza, come una bomba dirompente; ma appena passato il fumo dello scoppio, la Presenza sua è lì, la tenerezza è lì ancora. È questo che ci libera e che, man mano che il tempo passa, assimila a sé anche le vibrazioni del nostro fisico e del nostro spirito, così che, lentamente o decisamente, secondo il disegno del Padre, la stessa nascita, lo stesso formarsi della vibrazione del nostro spirito e della nostra carne si assimilano a Lui, diventano secondo il suo Spirito.


4. La vita diventa missione
Concludiamo questa meditazione sulla certezza, sulla pienezza del nostro essere, rinnovando l’esperienza che la parola “gioia” suscita nella nostra memoria. La nostra gioia è nell’Altro. Non la speriamo da quello che abbiamo, da quello che avremo, da quello che facciamo o che faremo: la nostra gioia è nella sua Presenza e nelle sue gesta, mirabilia Dei, nelle sue gesta su di noi e tra di noi: «Cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto»23. La nostra gioia è nelle sue gesta su di noi e tra di noi. Leggerete perciò i capitoli dal 60 al 62 di Isaia: gli accenti di gioia con cui divina il futuro desteranno molto soprassalto anche nel nostro animo e troveranno molto aggancio nella nostra esperienza.
La modalità descrittiva di questi capitoli di Isaia - che riguardano la gioia, una gioia che è la gioia di Gerusalemme, a cui il mondo intero oramai guarda - ci introduce nella seconda parola d’ordine che la liturgia ci ha lanciato ieri sera, quando abbiamo detto: perché ai Magi è apparso? Non per nulla l’Epifania è sempre stata nella storia della Chiesa la festa missionaria per eccellenza; e non per nulla il Natale era identificato con l’Epifania, cioè il primo manifestarsi del Dio nato tra noi, del Dio-uomo al mondo.
La vita di Cristo non era sua, era per la missione. La vita di Maria non fu sua, ma per la missione. Quella vita dei pastori che, prima di vederlo, di ricevere l’annuncio, era loro, non fu più loro, ma era missione; anche se rimasero a casa loro con le loro mogli, con i loro figli e con il loro gregge. Il loro messaggio nel loro entourage, il messaggio nel paese dove erano, il messaggio che riferivano, che narravano a se stessi e agli altri, qual era? Quella vita, che per i Magi fu loro fino a quel momento, non divenne più loro.
Pensate, allora, come si capisce bene il brano di san Giovanni di ieri sera, che parla tutto di amore ai fratelli! Dice: «Non turbatevi se il mondo vi odia»,24 il mondo vi deve per forza odiare; l’odio inteso innanzitutto come l’estraneità totale, perché il vero odio è l’estraneità. Proviamo a immedesimarci con tutta la gente attorno a Maria, con tutta la gente attorno ai Magi, con tutta la gente attorno ai pastori. Come li giudicavano? Impazziti. Come li giudicavano? Strambi. Li sentivano d’un altro mondo, un mondo dissolto, un mondo fantasioso, vano.
Così la nostra vita non è più nostra, ma la nostra vita è missione, è il comunicare ciò che ci è accaduto. Comunicare ciò che ci è accaduto, rendere perciò comunione la nostra presenza, rendere comunione le presenze in cui ci imbattiamo, rinnovare il miracolo della sua Presenza, rinnovare il suo avvenimento, rinnovare con gli altri l’avvenimento che Egli ha realizzato con noi: con gli altri e con le cose, con tutto.
Come è suggestivo e tremendo nello stesso tempo renderci conto - come raramente facciamo, perché ne abbiamo un’istintiva paura, mentre è proprio lo sforzo di immedesimazione di cui sto parlando che ci dà in un modo copioso la percezione precisa del volto nuovo che è in noi - di come, tanto quanto viviamo queste cose, cerchiamo di vivere queste cose, gli altri ci sentono estranei! Tutti gli altri, quasi tutti gli altri; sto parlando anche di quelli del movimento, di quasi tutti quelli del movimento, per i quali il movimento continuerà ad essere (e il cristianesimo continuerà ad essere) il fare iniziative o il fare discorsi, oppure una sentimentalità buona di vicinanza, di compagnia, di fraternità o di aiuto, ma non l’avvenimento nuovo. Non si sono ancora visti «tendere le braccia per precipitarsi sul suo seno e piangere dirottamente e comprendere tutto». È per questo che non sentono, come l’espressione suprema della propria persona, del sentimento di sé: «Venga il tuo regno», come invece la “delinquente” Sonia: «O Signore, venga il tuo regno». Questa è la domanda che brucia dalla radice tutta la pula e la paglia, per lasciar solo l’oro della nostra persona; tutta la pula e la paglia dei nostri desideri come nostri, dei nostri progetti come nostri.
Dunque, quello che ci è accaduto è perché la nostra vita sia missione, missione nella carne, missione nella nostra carne: badate che non c’è soluzione di continuità tra il tornio e le mani che lo fanno andare, non c’è soluzione di continuità fra la macchina da scrivere e il cuore e la faccia nostre, perché tutto è corpo dell’uomo!
Missione vuol dire, perciò, rendere presente quello che si è reso Presenza a noi, dove siamo, dovunque siamo. Se uno di noi va a lavorare senza gridare col cuore, e costringersi a ripeterlo: «Venga il tuo regno»; se uno va all’università o a scuola senza dire: «Venga il tuo regno», non vive la missione. E come si fa a dire: «Venga il tuo regno», comportandoci così indifferentemente come ci comportiamo di fronte agli altri, ai compagni che sono lì? Come facciamo a dire: «Venga il tuo regno», senza cercare di tradurre loro quello che ci è accaduto, incarnandolo nei bisogni e nella mentalità loro, dentro le loro stesse iniziative, dentro le loro problematiche? Come facciamo a vivere la nostra casa, dove essa è, senza dire: «Venga il tuo regno», «Venga il tuo regno qui»? Il che non vuol dire necessariamente che vi mettiate a fare la missione invitando alle vostre conferenze tutti quelli del caseggiato. Non sto parlando di questo, ma sto parlando di una cosa che è identica a questo, fatta secondo tempi e modi che le occasioni richiederanno.
È questa vigilanza missionaria che rende la nostra vita strategia di Dio, che identifica la nostra vita con la strategia di Dio, col disegno di Dio. La nostra persona si identifica con la sua Presenza, certezza e pienezza, tenerezza, allegria, allegrezza e gioia: perché questo è il Natale. Io sto commentando il Natale, il Bambin Gesù. Tutto questo ci è dato perché la vita sia missione, cioè perché la nostra vita entri dentro il progetto di Dio, coincida col progetto di Dio, col disegno di Dio, con la strategia di Dio.

Badate che l’alternativa non è andare via dal gruppo adulto o dal movimento. Si può benissimo restare nel movimento e nel gruppo adulto senza questo, ma allora il nostro cristianesimo resta intellettualistico (discorsi, iniziative, dalle più piccole alle più grosse, dal raccogliere fondi alle cooperative, dal fare volantini fino a fare i controcorsi), oppure sentimentale; una posizione sentimentalistica, “affettivistica” e basta. Questo intellettualismo e questo “affettivismo” sono esattamente il contrario della certezza e della tenerezza. È proprio nella “coincidenza” missionaria di tutto il nostro esistere, del nostro vivere, del moto della nostra persona interiore ed esteriore, che si “sintomatizza”, si prova e anche si alimenta l’autenticità della certezza e la possibilità della tenerezza, da cui la nostra vita si deve sentire sostenuta e investita. Se quell’avvenimento è la mia identità, tutta la mia persona deve sentirsi investita, invasa, penetrata da questo. Certezza e tenerezza: ma è proprio nella missione che questo si prova.


Note

1 Messa del 5 gennaio: 1Gv 3,11-21; Gv 1,43-51.
2 Cfr. E. Mounier, Lettere sul dolore, Bur, Milano 1995, p. 66.
3 Cfr. Gal 2,20.
4 Cfr. 2Cor 1,22.
5 Ef 3,2-3.5-6.
6 Cfr. Ef 3,5-6.
7 San Bernardo di Chiaravalle, De diligendo Deo, XV, 39.
8 R. Tagore, Gitanjali, Lirica LXXXII.
9 Cfr. Lc 2,19.51.
10 San Bernardo di Chiaravalle, De diligendo..., op. cit., X, 27.
11 Cfr. ibidem.
12 Cfr. F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, parte prima, libro terzo, cap. XI, Bur, Milano 1998, pp. 213-214.
13 Proc. III, 20; cfr. LegsC 46.
14 Cfr. Lc 19,5.
15 Cfr. Lc 23,43.
16 A. Hayen, San Tommaso d’Aquino e la vita della Chiesa oggi, Vita e Pensiero, Milano 1967, p. 53n,55.
17 Cfr. ibidem, p. 53.
18 Cfr. 2Cor 5,21.
19 Cfr. F.M. Dostoevskij, I fratelli..., op. cit., parte seconda, libro quarto, cap. I, pp. 220.
20 Cfr. F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, parte prima, cap. II, Bur, Milano 1990, pp. 26-27.
21 Cfr. 1Gv 3,3.
22 San Bernardo di Chiaravalle, In Cantica Canticorum, sermo 82, art. 5.
23 Didaché, IV, 2.

24 Cfr. 1Gv 3,13.