Marcelo Cesena (da marcelocesena.com).

«Il mio cuore è la Sua musica»

Dopo un primo incontro con il movimento, vent'anni in giro per il mondo, fino a decidere di «vivere come un peccatore». Poi il successo come pianista: «Ma non ero abbastanza felice». Infine il ritorno: «La mia rabbia è crollata davanti a uno sguardo»
Marcelo Cesena

Pubblichiamo gli appunti della testimonianza di Marcelo Cesena agli Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione in Brasile.


Siete di fronte a un miracolo. La mia presenza qui lo è. È un miracolo grande come quello del ragazzo che era cieco e ha visto, di chi era paralizzato e fu guarito, di chi era morto ed è risorto. Questo sono io.
Essere qui mi costringe ancora una volta a guardare la mia vita, la mia storia, il mio cuore, tutto ciò che è accaduto e sta accadendo oggi: mi costringe a riconoscere che c’è la presenza misteriosa di Dio che mi crea, mi dà tutto, ma anche mi ama e mi salva. Mille volte se necessario. La mia è una storia di redenzione.

Alla fine degli Anni Ottanta facevo parte del movimento e, in questi ultimi vent’anni, ho pensato di non esserne più parte. Ma dopo il cammino che ho ripreso due anni fa, mi rendo conto che dire «faccio parte del movimento» è un eufemismo. Quel che voglio dirvi suona pretenzioso, ammetto di non comprenderne tutta la profondità, ma il mio cuore lo sta gridando e devo dirlo: «Io faccio parte del movimento. Io sono il movimento». Per me questo è una specie di scandalo, perché come posso dire «io sono il movimento», se ieri per esempio alla lezione di don Julián Carrón non ho capito nulla? È una pretesa, la mia, ma è ciò che il mio cuore grida: «Io sono il movimento».

Ho pensato cosa volessi dire a gente che non vedo da così tanto tempo. Non sono venuto qui per raccontare una storia, sono venuto a portare Cristo. Sapete dov’e? È nel mio cuore, è tra i miei capelli, nel mio respiro, nel mio naso storto, nel mio carattere buono e terribile. Sono arrivato ad un punto della mia vita in cui non posso più combattere questo fatto, non posso più scandalizzarmi: chi mi conosce sa quanto io sia incoerente, ma sto imparando lungo la strada che sto percorrendo che Cristo vive in me. E non nonostante i miei errori, i miei peccati, la mia incoerenza, ma attraverso di essi. È questo lo scandalo. Ma ho deciso che non mi voglio più scandalizzarmi, anzi, lo accetto volentieri. Questo è ciò che sto vivendo ora, e quello che Carrón sta dicendo è un dono, è una risposta per me.
Ho conosciuto Cl nel 1987-’88, all’Università Santa Marcelina di San Paolo. Ero testardo, e lo sono tuttora. Ero il tipo di ragazzo che andava alla Scuola di comunità per trovare ciò che di sbagliato diceva il prete. Avevo sempre avuto qualcosa da criticare. Alcune critiche erano anche giuste! Ma, dietro, c’era un’altra verità, che ho capito soltanto ora. Avevo quest’atteggiamento da fariseo perché ero profondamente legato, con tutta la mia serietà, a un’immagine di Cristo che mi ero costruito. Per me seguire Cristo significava seguire una serie di regole. Mi ero fatto anche un’immagine di quello che era la Chiesa. E anche un’immagine di chi ero io. Non conoscevo nemmeno me stesso. Ero di fronte alla risposta del mio cuore, ma non riuscivo a vederla. C’era qualcosa che mi attirava, che era lì, ma non riuscivo a capire cosa stava accadendo, perché ero così legato alla mia immagine.

Così Dio, che ama le teste dure come la mia, ed è molto paziente, mi ha lasciato fare un lungo cammino che mi ha portato dal Brasile all’Italia. Dall’Italia alla Bosnia, mentre c’era la guerra. Ho raggiunto Medjugorje e ci sono rimasto sei mesi. Dopo un’apparizione, ho scritto: «Nostra Signora, mostra che cosa vuoi dalla mia vita», e ho iniziato a mangiare solo pane e acqua, e a mettermi in ginocchio. Ero andato a Medjugorje perché ho sempre amato le cose grandi, ho sempre desiderato cose straordinarie... Già quando avevo dieci anni, cercavo i dischivolanti...
Il fatto è che durante questa ricerca dello “straordinario”, l’ho vissuto davvero lo straordinario. Sono finito in una comunità di tossicodipendenti, pulivo i bagni di ottanta ragazzi, ho lavorato pulendo sterco di mucca con le mani, senza guanti. Ho incominciato a studiare Teologia, perché forse avrei potuto diventare sacerdote... Ma nemmeno questo rispondeva alla domanda del mio cuore. Mi ricordo che un giorno, andando a ricevere l’Eucaristia, mi sono chiesto: ma io sto facendo tutto questo per che cosa? Mi sono reso conto che quello era un momento molto importante per la mia vita: non avevo mai guardato dentro me stesso. Avevo fatto tutto quello che avevo fatto, ma mancava qualcosa da dare a Cristo: me stesso. Ho capito che da me Cristo vuole solo una cosa: me, il mio cuore. Così quel giorno sono uscito e ho deciso di non essere più un “santo”. Ho deciso di essere un peccatore. E sono stato un peccatore tanto quanto ero stato “santo”. Ma di questo non voglio parlare...

Sono tornato in Brasile, poi sono andato negli Stati Uniti, perché volevo essere un pianista famoso, e così è stato: ho vinto un concorso, mi sono trasferito a Los Angeles e ho fatto tutto ciò che volevo fare. Ma, due anni fa, ho capito che c’era qualcosa che non quadrava. Non ero triste, perché quando si hanno i soldi si è felici, ma non ero abbastanza felice. Volevo una risposta completa. Mi mancava qualcosa. Ma non sapevo che cosa. Ho cominciato a guardare quello che avevo fatto nella mia vita: anche il fatto di aver lasciato il movimento, e di essere stato arrabbiato per vent’anni. Vent’anni in cui ho scaricato la mia rabbia su padre Vando. Invece, se non fosse stato per lui io oggi non sarei qui. È un esempio concreto di come Dio si serve di noi così come siamo. Perché ho capito che dietro quella rabbia c’era qualcosa di nascosto, qualcosa che volevo capire. Si prova rabbia per le cose di cui non si capisce il motivo, e proprio la rabbia mi ha salvato.
Non avevo dimenticato nulla, i nomi, le facce, neanche gli esempi stupidi che raccontavamo alla Scuola di comunità... E ho deciso di fare una novena. Nove giorni di digiuno. Di nuovo. Ho deciso di chiedere allo Spirito Santo, perché mi sono ricordato che Giussani diceva che, quando non sai come pregare, devi dire: «Vieni Spirito Santo». Se hai lo Spirito Santo, hai tutto. Quindi non ho recitato il Padre Nostro, l’Ave Maria o l’Angelus, né la preghiera di consacrazione. Ho pregato: «Vieni Spirito Santo», chiedendo l’unità. Mi sono guardato e ho visto un mucchio di cocci sul pavimento, che non avevano nessuna connessione, e volevo essere uno. Potevo essere anche un mosaico fatto di tanti pezzetti, ma volevo essere uno. Ho pregato.

Il nono giorno ho ricevuto un messaggio su Facebook: era un ragazzo che oggi è qui. Lo avevo incontrato qualche anno prima, senza sapere che appartenesse al movimento. Io stavo per andare in Brasile, e l’ho incontrato. A un certo punto, mi ha detto che in Facoltà aveva conosciuto un movimento ecclesiale, e lì ho cominciato a stare all’erta...! Gli ho chiesto chi conoscesse. Ha iniziato a fare i nomi di padre Vando, Alexandre, e di tutte le persone di mia conoscenza. Poi ha preso il telefono e senza chiedermi il permesso ha organizzato un incontro. Ci sono andato, ma portandomi dietro la mia rabbia, e l’elenco delle cose da rinfacciare a quella gente: mi avevano criticato perché ero andato a Medjugorje e allora avevo intenzione di “dimostrare” loro qualcosa. Ma davanti a quegli sguardi sono rimasto sconvolto. Non c’era niente di magico in quello che dicevano: solo lo sguardo. Ho visto crollare la mia rabbia sotto quello sguardo. Cleuza era lì e mi ha detto: «Come fai a dire che sei uscito dal movimento? Il movimento ha solo una porta di entrata... Sei fregato!». Anche in questi commenti scherzosi ho riconosciuto per la prima volta quello che Giussani dice sull’incontro. Da lì la mia vita è cambiata. Quel giorno sono nato di nuovo. Grazie a quest’amicizia, ho una lente a contatto gigante qui sul mio cuore e ho cominciato a vedere la mia vita in un altro modo, posso vedermi, vedere chi sono e capire chi sono in un modo che non avevo mai sperimentato prima.

Un grande cambiamento ha investito anche la mia carriera. Ho sempre pensato che la musica fosse una cosa ovvia, una distrazione per dimenticare i problemi... Ma ho capito che non era così. Ho capito che la musica è l’unico strumento che mi permette di stare davanti alla profondità della realtà, e che capire la bellezza crea bellezza. Questo fatto ha cambiato radicalmente la mia posizione verso la musica. Che è sempre per un altro. Non si fa musica per la bellezza, si fa perché un altro ascolti, e si è ispirati da un altro.
Di recente sono stato invitato a tenere una lezione sulla scoperta della bellezza attraverso la musica. Mentre preparavo il discorso, un mio amico mi ha raccontato che una ragazza di tredici anni era stata investita e uccisa per le strade di Malibu. Parlava della disperazione della madre, del padre e delle due sorelle. Era una storia come tante che sentiamo ogni giorno, ma quella mi ha toccato così tanto che non riuscivo a smettere di pensarci. Mi sono detto: qualunque cosa dirò alla lezione, dovrà essere vero anche per quella famiglia; se no, non è vero per nessuno. E così sono andato in crisi: ma che cos’è la bellezza? Ho chiamato il responsabile dell’incontro e l’ho avvisato che non avrei detto nulla della bellezza, perché non sapevo che cosa fosse. Non riuscivo nemmeno a dormire. Finché mi sono detto: vuoi dire qualcosa? Allora, parla con la musica.
Mi sono seduto al pianoforte e ho iniziato a suonare. Finito il brano, ho ricominciato ad avere pace. Ho immaginato che quel padre e quella madre stessero davanti a me: suonavo quello che volevo dire loro. Ho registrato il brano, chiedendomi come può nascere una musica bella da una tragedia così orribile... In quel momento, è stata come una profezia: se la musica è espressione di ciò che ho nel cuore, il mio cuore vive nella speranza che la bellezza sia in ogni cosa, anche quando non la vediamo, anche nella tragedia. Ho amato quel brano e ho cominciato a suonarlo. L’ho suonato qui in Brasile, in Italia, in vari luoghi. Ma non conoscevo quella famiglia.

Un giorno, attraverso Facebook, contatto il padre. Gli scrivo: «Forse sono troppo invadente, ma la mia esperienza dice che sua figlia non è morta. La storia di sua figlia non è finita e io l’ho vissuto in questo brano». Gli ho spedito il pezzo. Proprio quel giorno - io non lo sapevo - iniziava il processo per l’omicidio della figlia. Lui mi risponde: «Questo è stato il giorno peggiore della mia vita. Ma quando sono tornato a casa, ho trovato questo brano. Ho sperimentato la morte e la risurrezione nello stesso giorno». E poi aggiunge: «Ma tu, chi sei? Dove vivi? Qual è la tua storia?». Chiedono di incontrarmi e vengono a casa mia. Io invito alcuni ragazzi del movimento, perché non volevo essere da solo. Ma ero preoccupato, perché temevo parlassero di Cristo, del movimento... Allora li ho chiamati prima: «Questa non è catechesi! Dobbiamo avere il cuore aperto per conoscerli». Ero molto nervoso. Ma il padre, appena arrivato, ancora sui gradini, mi dice: «Prima che tu apra bocca voglio dirti una cosa: questo è un miracolo. Essere qui è un miracolo. La nostra amicizia è per sempre, e chi ha fatto nascere questa amicizia è un Altro. Per questo è per sempre». Lui è un ebreo. Così inizia la cena. Parliamo, tutto benissimo, parliamo, poi stanno per andarsene, ma la madre si siede di nuovo, mi guarda in faccia, guarda gli altri e dice: «Chi sono loro?». Trenta secondi di silenzio. In quel momento mi è venuto in mente Pietro: «Lo rinnegherai?». Gli ho spiegato in poche parole, non ero preparato... Ma la cosa importante è stata l’esperienza di quella sera, l’amicizia che ne è nata. La madre mi ha scritto questa lettera: «In macchina, tornando a casa, ero così felice, da tempo non mi sentivo così commossa e felice. Ci ha fatto un dono che è incommensurabile. Grazie per aver corso il rischio di scrivere alla cieca a Michel su Facebook. Spero che ci incontreremo ancora, presto. La ringraziamo infinitamente. Non so come dirle che cosa ha significato ieri per noi. Trovare voi e i vostri cari amici, che sono così genuini, dolci e allegri, è stata già di per sé una meravigliosa esperienza. Non posso fare a meno di pensare che sia stata come una compensazione. Viviamo forse la peggiore tragedia, perdere una figlia, e il suo assassino ci mostra il lato peggiore dell’umanità. Eppure eccoci qui, con persone totalmente sconosciute che ci mostrano esattamente il contrario. L’affetto e l’amore che abbiamo sentito con voi ci riconfermano che ci sono persone buone su questa terra. Ascolto Emily (il brano che ho composto) ogni giorno e sono sempre commossa dalla bellezza di questa musica».

Una delle cose che ho scoperto in questo cammino con voi, è che Lui ha posto in me il desiderio di fare musica. In tutto l’universo, per quanto ne sappiamo (ho cercato degli extraterrestri ma non li ho mai trovati) siamo gli unici esseri che fanno arte. Pensate a Brahms, a Bach. Quest’anno sono andato in Italia. Ho pianto per tre ore godendo della bellezza di Firenze. E ho capito che Dio ha posto nel mio cuore il desiderio di creare perché vuole farmi capire un po’ (molto poco) l’esperienza che Lui fa. Il nostro cuore è la Sua musica. Quando Lui guarda il nostro cuore, allora il nostro cuore è più grande delle opere di Michelangelo, è più grande di Venezia, è più grande dell’universo. È più bello di qualsiasi opera di Bach e di Beethoven. Questo è il nostro cuore. Lui ci guarda, ci ascolta, e dice: «Com’è bello!». Ecco perché ha messo nel mio cuore questo dono, questo talento, perché io possa capire un po’ di quello che Lui è.