Un momento dell'incontro (© Giorgio Salvatori).

«Un'amicizia che va oltre il tempo»

Sul Monte Koya, nel cuore del buddismo Shingon, la conclusione della trasferta giapponese: la Sagrada Família, i templi buddisti e i trentadue anni del Meeting di Rimini. Ecco come è «fiorito il seme gettato nell'incontro con don Giussani»
Davide Perillo

Ci siamo. Il Monte Koya. La terza giornata di incontri su "Tradizione e globalizzazione" si svolge qui, in una sala della cittadella sacra del buddismo Shingon. Quella visitata nel 1987 da don Giussani, all'inizio di questa amicizia. Volta a cassettoni in legno, ornamenti dorati ovunque, file di lanterne. Almeno trecento persone in platea. E due foto grandi, a svettare dietro il palco. Don Giussani, appunto. E Giovanni Paolo II con Francesco Ricci.
Si inizia con una preghiera per i morti del terremoto di marzo. Un giro di saluti ufficiali: l'ambasciatore italiano, Yoshinobo Nisaka, governatore locale («una delle cose che servono di più al mondo è questo spirito di fratellanza che troviamo nelle due religioni presenti qui»). Poi Yukei Matsunaga, la massima autorità del buddismo Shingon. «Con don Giussani discutemmo di due temi: le idee di Kobo Daishi, il nostro fondatore, e l'educazione. Fu gettato un seme che oggi è un bellissimo fiore». Anche Massimo Camisasca, portando il saluto di Julián Carrón, riprende questo filo: «Perché ci siamo incontrati? Perché abbiamo a cuore l'educazione, la possibilità che l'uomo diventi se stesso. Vogliamo aiutarci a crescere, per questo stiamo insieme».
E per questo, subito dopo, si parla di bellezza. Anzi, della ricerca della bellezza. Con Etsuro Sotoo, lo scultore della Sagrada Família, che stavolta gioca in casa. E ai connazionali spiega il suo lavoro così: «Attraverso Gaudí cerco quello che i giapponesi hanno dentro il cuore. La sensibilità giapponese, anche se sensibilità è una parola che non dice tutto». Ma una parte decisiva è l'accorgersi della bellezza. «È la bellezza che costruisce tutto. Si vede da fuori, ma ha una radice interna». Dice di qualcosa che va oltre ciò che si vede e «sta alla radice di tutto l'umano». Racconta della Sagrada, dell'incompiutezza, del suo ruolo per il compimento dell'uomo. Di tutti gli uomini. Per questo il tempo della conclusione non importa: «La Sagrada sarà finita quando l'umano sarà compiuto».
Poi tocca a Shizuka Jien, direttore del museo Reihokan del Koyasan, parlare dei tesori custoditi in questa terra sacra da milleduecento anni: «La nostra cultura è scalare tutto come una montagna». Si parla della calligrafia. Dell'arte. Scorrono immagini di scritti originali di Kobo Daishi, statue duecentesche di una bellezza assoluta, divinità, mandala. Un mondo altro rispetto al tuo, ma davanti al quale ti ritrovi imprevedibilmente toccato.
Pausa, sushi. E si torna in sala, a ritmi molto nipponici, tra file di studenti dell'università di qui. Tavola rotonda, a sei voci. Argomento: l'educazione e i maestri.
Introduce Shingen Takagi, ex rettore dell'Università. «Non abbiamo potuto preparare molto questo incontro, ma abbiamo lo stesso sguardo e questo basta». E visto che «lo scopo fondamentale di don Giussani è l'educazione», chiede a don Ambrogio Pisoni di andare a fondo su questo. Lui lo fa. Racconta di Giussani, della centralità dell'incontro, di «cuore» e «avvenimento». Parla del «metodo che lui ci ha sempre insegnato, l'ecumenismo». Ma racconta anche di sé, del perché «l'amicizia con Habukawa è ancora oggi l'evento che mi costringe a guardare con stupore e rispetto alla persona viva di Gesù Cristo, alla sua azione nel mondo sempre viva e imprevedibile». E di un pranzo milanese di quasi vent'anni fa alla fine del quale, mentre il monaco se ne andava, don Giussani disse ai presenti: «Se quest'uomo fosse vissuto ai tempi di Gesù, sarebbe stato uno dei dodici».
Habukawa interviene subito dopo. Parlando di «quel 28 giugno 1987» in cui «alle 11, portando una luce splendente, è arrivata tra noi una persona: don Giussani. Si è intrattenuto con alcuni di noi senza preoccuparsi della sua stanchezza. Abbiamo parlato della conoscenza dell'uomo e dell'educazione, da subito». Poi racconta gli inviti a Rimini. E il Meeting visto da lui, fatto da «cercatori di pace, di fratellanza tra gli uomini». Parla dei volontari «senza i quali una cosa così non potrebbe esistere». Racconta della passione educativa che ha visto in lui, e chiude dicendo che «don Giussani mi ha fatto sentire grande affetto per le persone che vivono con questa passione la loro missione».
Segue Chiun Takahashi, monaco anche lui, ma con un mestiere particolare: costruttore di templi. Era tra i presenti a Rimini, esordisce canticchiando «Danos un corazon...». Pensi a un modo simpatico per salutare gli italiani, e invece ti sorprende: «In quel 1988 in cui ho imparato questa canzone ero impegnato nella costruzione di un tempio ad Hiroshima che mi ha richiesto dieci anni. Quel vostro canto mi ha sostenuto per tutto questo tempo». Poi spiega di come nel suo lavoro sia fondamentale lo spirito che ha visto, «l'importanza di una passione, di un cuore che desidera cose grandi ma senza cercare l'interesse personale».
Tocca di nuovo ad Emilia Guarnieri. Che stavolta racconta molto di sé e del rapporto con il "suo" maestro, don Giussani. Parla della sua esperienza di insegnante, di «bellezza, arte e musica che sono un grande fattore educativo perché ridestano la nostalgia dell’infinito». Del Meeting: «In questi 32 anni di esperienza, in cui ho avuto la fortuna di incontrare uomini diversi per fede, cultura e religione, ho sperimentato che veri maestri sono coloro che sanno comunicare una passione per la vita». E di don Giussani dice che «ha educato il mio cuore alla verità e alla bellezza perché io diventassi capace di giudicare la realtà. La prima grande ipotesi che mi ha offerto è stata che il mio cuore è esigenza di infinito».
Per ultimo, Franco Marcoaldi, poeta e scrittore. Che riprende Sotoo, lega dal suo punto di vista educazione, bellezza («spina dorsale dell'umano») e «differenza. Perché strade e volti di quella bellezza sono molteplici». Parla di dialogo e, insieme, salvaguardia di queste diversità, «altrimenti ne pagheremo le conseguenze: attenti a trapiantare la testa di una pecora sul corpo di uno yak, ha detto il Dalai Lama». È Takagi a ricordare che per don Giussani l'ecumenismo era proprio questa valorizzazione totale dell'altro.
Altro giro rapido di interventi, qualche domanda del pubblico. E a tre ore fittissime dall'inizio, Camisasca trae le conclusioni: «Cosa abbiamo vissuto oggi? Un convegno? No, abbiamo assistito a un avvenimento frutto di un'amicizia. Che, quando è vera, va oltre il tempo. Raggiunge altri uomini. Ha raggiunto noi oggi. E ci ha uniti. Siamo aperti a quello che può accadere». E che troverete per intero, e raccontato più a fondo, sul prossimo Tracce...