Daniele Luiz da Silva al Meeting di Rimini.

«Libero per uno che mi ha abbracciato»

Daniel Luiz da Silva era a capo di una banda criminale e aveva tutto. Poi l'arresto. Dopo anni di celle comuni e tentativi di fuga, finisce all'Apac, il "carcere senza carceri" di Mário Ottoboni. La storia di uno dei protagonisti della mostra al Meeting
Alessandra Stoppa

Quando esce dal carcere la prima volta, a sedici anni, dopo quarantacinque giorni di detenzione, promette a sua mamma di cambiare vita. Aveva iniziato rubando le bici a scuola, poi nei supermercati, e alla prima rapina a mano armata era finito dentro. Ma lui giura di non rifarlo più, davanti al dolore di quella madre che aveva già tanto sofferto per l’abbandono del marito. Era rimasta da sola con cinque figli e il sesto in grembo. Lui aveva sei mesi, quando lei per la disperazione è finita in manicomio per sette anni.
Ma quella promessa che le fa, Daniel da solo non riesce a mantenerla. In quel tempo senza padre né madre ha covato troppo rancore. Solo tre anni dopo il primo arresto, dovrà rispondere a ventisette processi e, di lì a poco, sarà condannato a trentasei anni di carcere.

Era a capo di una banda che aveva terrorizzato con rapine ed assalti la cittadina di 80mila abitanti di São João del-Rei, nello Stato di Minas Gerais, e avevano tutto: soldi, donne, macchine; le serate erano confuse tra droga e funky, in una continua sfida con i ragazzi della gang avversaria. Quelli che una sera, per vendicarsi con lui, uccidono suo fratello maggiore. Il fratello buono. Anderson aveva 25 anni. «Era sempre stato accanto a nostra madre», racconta oggi Daniel: «Aveva lavorato la terra fin da bambino per aiutarla». Quando l’hanno assassinato, la rabbia che Daniel aveva dentro è impazzita. «Abbiamo reclutato nei quartieri duecento uomini. Abbiamo speso tutti i soldi che avevamo in armi». E hanno iniziato la loro guerra.

Fino al suo arresto e ai tredici anni nelle carceri comuni. «Cambiavo città ogni tre mesi, con vari regimi di detenzione. Fuori, i “miei” continuavano ad ammazzare per farmi sapere che non mi avevano abbandonato». Tentava sempre di fuggire, ma non riusciva. «Nel penultimo carcere dove sono finito eravamo in venti in dieci metriquadri, con due rotoli di carta igienica e una saponetta per un mese. Gli unici vestiti che avevamo li usavamo per dormire, di giorno stavamo in mutande. Quando ho preso un’infezione grave alla pelle, per curarmi mi hanno dato l’insetticida». Finché, durante una perquisizione, non si butta in ginocchio davanti a un secondino e chiede di sparagli in testa.

Daniel Luiz da Silva

Il giorno dopo, trova in cella una Bibbia. «Ho sempre pensato che quell’agente avesse avuto pietà di me». Lui la apre a caso, e legge il versetto di Giovanni 8,32: conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. «Per la prima volta ho pregato Dio. Gli ho detto: “Se Tu esisti, cambiami la vita”. E me l’ha cambiata».
Dopo poco tempo, lo spostano di nuovo al carcere della sua città ed è lì che il giudice che lo aveva seguito in tutti quegli anni gli dice: «È impossibile che Dio abbia fatto un uomo cattivo come te. Io non ci credo». Tanto che ci scommette tutto e lo manda nell’Apac di Itaùna.

È il “carcere senza carcerieri”, fondato da Mário Ottoboni, dove non ci sono guardie, armi, filo spinato, manette, né numeri identificativi; sono prigioni gestite dai detenuti, anzi non detenuti, ma “recuperandi”, e all’ingresso campeggia la scritta: «Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori». Ma non perché non si facciano i conti con quello che si è commesso. L’inizio del cambiamento per Daniel coincide proprio con il guardare in faccia quello che ha fatto, ma dentro ad un abbraccio immeritato, come quello che riceve da Valdeci Ferreira, l’avvocato che ha seguito le orme di Ottoboni ed oggi è il direttore generale della Fbac, la Fraternità brasiliana di assistenza ai condannati, che riunisce tutte le Apac.

Quando arriva ad Itaùna, Daniel trova la gente che ha ammazzato suo fratello. È sicuro che finirà male: o lui li farà fuori o loro faranno fuori lui. Ma dopo pochi giorni, lo mandano ad una “Giornata di liberazione con Cristo”, organizzata dalla Federazione. Un ritiro spirituale di quattro giorni. «Io ero separato: capivo che tutto era diverso da prima, ma dentro di me non era ancora cambiato nulla». Finché Valdeci non inizia a metterli davanti ai crimini che hanno commesso e a parlare della figura del “padre”. «Era la persona che odiavo. Il suo abbandono era all’origine di tutto. Mentre lui parlava, io vedevo la mia vita. E vedevo tutto quello che avevo fatto: erano delle pugnalate. Non facevo altro che piangere. Poi Valdeci è venuto da me, mi ha abbracciato, ed io sono stato liberato dalla prigione che avevo dentro. Gli ho solo detto: “Oggi sono uscito dal crimine”».





















È all’Apac che Daniel accetta di incontrare suo padre. Pensa di essere pronto, sereno. Invece non appena lo vede gli vomita addosso tutta la sua rabbia. «Ma ad un tratto mi sono fermato. E gli ho chiesto: perché ci hai lasciati?». E il padre gli racconta che in tutti quegli anni è stato in prigione. «Lì ho visto me stesso». Il perdono ricevuto e donato è stata «la risposta di Dio alla mia domanda».

Oggi lavora come ispettore del lavoro, è sposato con Priscilla e hanno tre figli: Isacco, Edoardo e Juan Vito. Due non sono suoi figli naturali, sono figli di Priscilla. Ma Daniel li ha accolti come suoi. «Perché io, che ero un rifiuto, sono stato accolto. E per dire grazie non posso che desiderare di dire ai detenuti e a tutti che Dio è reale». Lo ha fatto al Meeting di Rimini, portando la sua testimonianza e incontrando le migliaia di persone che hanno visitato la mostra sulle Apac. «Il Meeting è un pezzettino del cuore di Dio», dice. Ha voluto chiamare sua madre, per raccontarle quanto gli stava accadendo in Italia e quanto bene stesse facendo a tante persone portando la sua storia. «Lei ha pianto. Mi ha detto solo: “Ora posso riposare in pace”». La promessa è mantenuta.