Don Natale con i bambini di Bonemerse.

DON NATALE Un amico «totalmente uomo e totalmente cristiano»

L'offerta della vita senza riserve, dai giorni instancabili in oratorio fino alla malattia. La morte di don Natale Bellani e la gratitudine del "suo" popolo, un paesino della bassa cremonese trasformato dalla sua paternità

Caro don Carrón,
ti dobbiamo scrivere di don Natale. Per la tua e nostra consolazione e per la glorificazione del buon Dio. La sera di sabato 3 ottobre, proprio come San Francesco nel 1226, don Natale è morto. Aveva sessantatre anni, tre o quattro tumori inguaribili addosso e una parrocchia in un paesino sconosciuto della bassa cremonese. Il don, come lo chiamano tutti a Bonemerse, era uno schietto, alla don Camillo: figlio di don Giussani, devoto della Madonna e di suor Faustina Kowalska, aveva due manacce che mollavano sberloni al momento giusto e una vocazione sacerdotale sin da piccino. Una famiglia, la sua, ricca di chiamate (la sorella Elisa è Memores Domini e il cugino Emilio sacerdote come lui) e a tutti gli effetti, semplicemente cristiana.
Così, molto presto, era stato ordinato prete. Dopo alcuni anni nella parrocchia di San Pietro a Cremona (dove ha cresciuto tanti dei “nostri”) è finito a Bonemerse, nel 1985. Questi ventiquattro anni sono tutto, per noi. Il don, per dirla spiccia, era uno che amava la bellezza. Perché in essa – ce lo martellava in testa sempre – risplende il Vero. Si entusiasmava per i piccoli reperti romani che noi ragazzetti trovavamo raschiando un po’ nei campi intorno alla parrocchia (organizzava per questo delle cacce al tesoro davvero epiche) e mentre ci raccontava di questa o quella battaglia ci faceva inginocchiare tutti in chiesa, sulle panche di legno, di fronte al suo amato Gesù. Era innamorato di Gesù. Ai bambini del catechismo mostrava sempre, durante la Quaresima, le piaghe della Sindone. E le spiegava tutte, una a una. Perché anche i piccoli devono partecipare del mistero terribile e grandioso della morte. Così non è sembrato strano, in questi giorni di dolore e di acuto senso di vertigine, vederne tanti venire a salutarlo al suo capezzale o nella bara ancora aperta.
Con indosso sempre la talare, dall’altare tuonava con la sua vociona contro le bugie di certi intellettuali o giornali contemporanei, si infervorava per la vita politica e con certi preti che di inferno e di latino non vorrebbero parlare. Non scambiava mai, però, le prediche dal pulpito coi sermoni sociologici: la via che indicava era l’amore a Cristo, a quell’Uno fattosi carne e incontrabile oggi, qui e ora. Alla liturgia e alla tradizione teneva in modo particolare, riconoscendo una primitiva bellezza in quei canti gregoriani che noi faticavamo a capire, all’inizio. Te li vedi tu, tutti noi abituati ai canti con la chitarra, a cantare un Te Deum come si deve? O le vecchiette sedute in prima fila a cercare di ricordare questa o quella parola in latino? Eppure, pian piano, con l’aiuto dell’amico Massimo (che dirige un coro di gregoriano) e di sua moglie Ilaria (direttrice del coro Santa Veronica, sempre della parrocchia) siamo riusciti ad avere una messa bella. Veramente bella. L’altare non più centrale, il sacerdote che celebra di spalle, Kyrie, Pater, Agnus e Sanctus cantati in gregoriano. Un coro come si deve. Soprattutto, la gente non è scappata via. Un po’ perché la messa cominciava a piacere, un po’ per quelle grosse fette di pane e salame, con l’immancabile vino rosso, dopo la messa delle 11 al bar dell’oratorio.
Ma il don mica si accontentava: voleva a tutti i costi una cappella per il Santo Volto, per la quale chiedeva preghiere e soldi. E adesso quest’oasi c’è, piccola, in mezzo a due campi, ma c’è.
Ma questi, sono stralci di racconto. Perché la storia vera è nelle centinaia di volti che don Natale ha paternamente, fraternamente cresciuto. Sono i nostri padri e le nostre madri, sono i nostri fratelli e i nostri figli. Siamo noi. Il miracolo è nel ragazzo rom che ha accolto in casa per anni, anche se questo ogni volta fuggiva e finiva in galera. È nel come ha accompagnato tanti malati, tanti lutti, tanti matrimoni. È nella sua amicizia fedele a noi che, ogni tanto, quell’amicizia la tradivamo. È nel suo sguardo fisso a Gesù. Come negli ultimi mesi. La malattia era un paio d’anni che andava e veniva. E a seconda dei suoi sghiribizzi, noi andavamo e venivamo dai vari santuari: Caravaggio, San Pampuri, Padre Pio, Assisi… e si chiedeva il miracolo. Insistentemente, si è chiesto il miracolo della guarigione. Con fede, fino alla fine. È stato commovente vedere lui, in quel letto di ospedale (lui, sempre così attivo per la sua parrocchia, sempre in giro a brigare e disfare) che da uomo ha chiesto, fino all’ultimo, di vivere. Ed al contempo ha accettato quello che Dio ha scelto per lui. Ci è sembrata, per qualche tempo, una contraddizione enorme. Ma come Signore, noi ti chiediamo di guarirlo, di farlo restare qui con noi ancora, te lo chiede anche lui, e tu ce lo togli? Com’è la faccenda? Com’è che il miracolo non ce lo fai? E queste settimane sono state tutte un accorgersi che il vero miracolo era già lì, tra noi. Era prima di tutto nel suo corpo straziato (nelle sua guance scavate, nel suo pallore, nel suo dimagrimento così repentino, nella sua immobilità a letto) che ci ha legato per sempre a quello di Gesù in croce ed era, ancora, nei suoi ragazzi dell’oratorio (mica tutti di cielle) che per settimane, tutti i giorni, si sono ritrovati a dire il Rosario, la coroncina della Divina Misericordia, i Vespri. Il miracolo è nella gente che è ritornata in chiesa dopo anni, nei nostri figli che hanno potuto vedere un amico morire così: totalmente uomo e totalmente cristiano. In noi, in me. Che per la prima volta, davvero, abbiamo potuto guardare il Crocefisso senza una pretesa, ma con un amore infinito. E la preghiera è diventata quella di poterLo amare come il don Lo amava, di poterLo seguire come il don Lo seguiva. Dicendo: «Che fatica!» quando la strada saliva, ma mai con la tentazione di mollare. Non si può desiderare altro per sé e per i propri amici. Per questo, nelle ultime ore, non è stato terribile lasciare andare il don. Perché sarà anche vero, come scrive il curato d’Ars, che ci si capisce solo in Cielo. Sulla terra, noi, abbiamo avuto bisogno di uno come il don.
Cristiano, Maria Acqua e la comunità di Bonemerse (CR)