Steve Jobs e Bill Gates.

La strana intelligenza di Steve

Il biografo ufficiale di Jobs s'interroga sulla "testa" del fondatore di Apple. Che non puntava sull'analisi, ma su «intuizione» ed «esperienza». Un approccio alla realtà niente affatto razionalista. Il tutto ripreso da "Repubblica"...
Alessandra Stoppa

La prima notizia può sembrare tutto tranne che una notizia: Steve Jobs era intelligente. Nessun dubbio, «si potrebbe dare per scontato: era un uomo davvero, davvero intelligente». Ce ne starebbero anche quattro o cinque di «davvero» secondo Walter Isaacson. Che però ha deciso di scrivere un ampio articolo per il New York Times, e ripreso da un importante quotidiano italiano, per dire che non dà affatto per scontata l’intelligenza di Jobs.
Lui che lo ha conosciuto da vicino, fino alla fine, in lunghi dialoghi e nelle sere a cena con la sua famiglia da amico e da eletto (a comporre la biografia ufficiale), ora si chiede cosa renda diverso il fondatore di Apple da tanti altri uomini della modernità e del nostro tempo la cui intelligenza è fuori discussione - il primo paragone è sempre a scapito del povero Bill Gates, che, sì, è bravissimo ma ha inventato Zune, non l’iPod…
La differenza tra il genio e l’uomo di scienza inquadra gran parte della risposta, ma ad Isaacson non basta darla. Ci fa attenzione. E racconta che cos’ha capito osservando il modo di lavorare e di pensare di Jobs: «Era arrivato a dare maggior importanza alla saggezza che nasce dall’esperienza più che all’analisi. Non studiava dati. Non masticava numeri». E fu quando vagabondava per l’India che «iniziò ad apprezzare il potere dell’intuizione antitetico a quello che definiva il “pensiero razionale occidentale”». Quello che «lui definiva» così, appunto: non la razionalità in sé. Poi Isaacson ribadisce: «L’intuizione di Jobs aveva i suoi presupposti nella saggezza esperienziale».
Così prima di scivolare a parlare di poesia e processori, tecnologia e arte, o di quanto Jobs fosse indelicato con le persone pur essendo quello che le capiva di più, nell’articolo si parla innanzitutto di un uso dell’intelligenza diverso. Proprio perché Jobs era il primo a parlarne, quando diceva che nelle campagne indiane «la gente non usa l’intelligenza come facciamo noi. Preferisce ricorrere all’intuizione». A quel modo di afferrare le cose che è immediato ma che insieme eccede il dato nudo e crudo. E l’articolo non manca di accennare a un legame diretto tra questo uso dell’intelligenza e l’esperienza religiosa di Jobs, amante del buddismo zen.
La seconda notizia è che a pubblicare le suddette riflessioni di Isaacson è Repubblica. Un quotidiano che di solito, soprattutto nella scelta dei temi culturali e scientifici, si distingue per un approccio razionalista. E in cui non è difficile trovare titoli e firme che sostengano - più o meno esplicitamente - una certa idea di ragione: ciò che non è dimostrabile non esiste o se esiste è magia, superstizione, pseudo-scienza. Ovvero credenza falsa e dannosa.
Eppure se si portano fino in fondo (e non serve spingere mica troppo) le constatazioni di Isaacson su quale sia l’uso più potente dell’intelligenza, si bestemmia quello stesso razionalismo. Si va ben lontani da una ragione positivista che viviseziona la realtà. Perché tutti hanno celebrato Jobs come “il visionario”, ma senza porre troppa attenzione al legame che c’è tra questo e la sua intelligenza: ciò che lui riusciva a “vedere” dentro la realtà non era «innescato dal rigore analitico», ripete Isaacson. Ma da una capacità d’immaginazione e d’intuizione alimentate dall’esperienza.
Ora, chi si azzarderebbe a dire che quella di Jobs era magia o superstizione? O un’intelligenza di serie B? Anzi. È l’intelligenza più intelligente. Non un'analisi, ma uno sguardo che buca la realtà. E ci entra.