Franco Branciaroli in <em>Processo e morte di Stalin</em>, <br>nei panni del protagonista.

Stalin, a processo un uomo e il suo secolo

Franco Branciaroli e gli Incamminati portano in scena l'opera di Eugenio Corti sullo statista sovietico. Un testo degli anni 60, a lungo messo in ombra dal mondo del teatro. Il dramma di un dittatore che porta in sé tutta la tragicità del Novecento
Paola Bergamini

«La realtà siamo noi. Se la realtà storica non ci viene dietro, e quindi sbaglia, noi possiamo anche cambiare la storia». Sul palco le parole di Stalin a Olga, la nuora che ha perso il marito suicida, sembrano pietre scagliate contro chi non può più credere a questa “storia”. È uno dei momenti più drammatici e umani della tragedia di Eugenio Corti Processo e morte di Stalin che il 24 giugno (con replica il 25 e il 26) debutterà al Teatro Manzoni di Monza. A riportare in scena quest’opera, scritta tra il 1960 e il ’61, ma boicottata da un certo circuito culturale di sinistra tanto da rimanere nell’oblio per oltre cinquant’anni, Franco Branciaroli con il Teatro degli Incamminati, per la regia di Andrea Carabelli. Sul palco a ripercorrere le ultime ore del dittatore russo, insieme a 13 attori professionisti, 27 alunni del liceo scientifico Don Gnocchi di Carate Brianza. Proprio loro aprono la scena in corteo, portando bandiere rosse e la statua di Lenin. Sono il coro della tragedia e in questa nuova versione le loro parole sono state messe in musica dal compositore Alessandro Nitti. Musiche dure senza armonia per il coro degli uomini, invece dense di malinconia per le donne che hanno perso i loro uomini, incarcerati o uccisi da quel potere che aveva promesso oltre al pane per tutti, la libertà.
Come è nata l’idea di mettere in scena quest’opera? «Quasi per caso - spiega Andrea Carabelli -. Leggendo Il Cavallo Rosso, a un certo punto Corti fa riferimento a quest’opera teatrale che Mario Apollonio definì una delle più grandi tragedie del Novecento. Incuriosito, sono andata a cercarla. Ne sono rimasto affascinato: ogni parola è densa dell’esperienza vissuta dall’autore. Ho voluto incontrare Corti per esporgli le mie idee. Si è commosso, come se da anni aspettasse questo momento». Ma chi è “questo” Stalin? «Il personaggio ha dentro tutta la tragicità del Novecento. È il massimo della coerenza. Lui ha applicato con rigore il comunismo, il suo ideale: non importa se per far questo è arrivato persino a distruggere i legami familiari. Lui vuole solo eliminare il male dalla società estirpando Dio. Da solo. È la grande tentazione. Ma per far questo, alla fine, bisogna eliminare l’uomo. Lo dice a un certo punto, quasi rasentando il tragicomico: “Li mando nei gulag perché comprendano e loro muoiono”».
Anche nel rapporto con Olga, interpretata dall’attrice Cinzia Spanò, di cui lui desidera l’affetto come una figlia, alla fine prevale l’ideologia. «E lei, nella sua ignoranza, lo spiazza quando gli dice: “Lo sapete voi cosa è il mondo? Ogni uomo è un mondo: rendetemi il mio. Rendetemi Jascia, voi, suo padre, che l’avete assassinato”».
Ecco, quando sulla scena ci sono loro due, viene quasi un moto di compassione verso il dittatore che come ogni uomo desidera solo essere amato, compreso. E anche di fronte agli uomini del Politburo, venuti ad arrestarlo per sottoporlo al processo, il suo ragionamento lucido affascina. Stalin ci crede fino in fondo. Sono loro che si devono arrendere al fatto che «potete illudervi di fare a meno della violenza, solo fino a quando rimarrà negli uomini il salutare terrore per le repressioni da me esercitate, ma non oltre». Gli dicono che è pazzo. Ma sanno che non lo è. «Certo. Stalin non è un sadico criminale - afferma Branciaroli, che per interpretare il personaggio si è fatto crescere i baffi -. È convinto della possibilità di cambiare il mondo attraverso il marxismo. Il sangue versato lo reputa necessario. Ma la cosa non lo diverte. Lui uccide per ideologia, perché è un comunista. Lo dice: più ci si avvicina al socialismo, più gli oppositori aumentano, più è necessario essere implacabile. Non possono accusarlo, come tentano di fare, di essere un deviazionista». Come mai ha accettato la sfida di mettere in scena questo testo? «Innanzitutto perché è un bel personaggio dal punto di vista teatrale. Ha lo stesso spessore di Riccardo III, di Macbeth. Per come è scritto non è mai manicheo: non ci sono i buoni e i cattivi. Hai sempre il sospetto che lui possa cambiare. È la tragedia di un uomo la cui parola ha la possibilità di tramutarsi in azione immediatamente. Non è pazzo: deve sfamare 300 milioni di persone».



Teatro Manzoni Monza: 24-25-26 giugno
Biglietteria on line: www.teatromanzonimonza.it