Dostoevskij e i colpi della speranza

LA GRANDE INTERVISTA
Giovanna Parravicini

Gioia e dolore, morte e perdono. Tutto, per il grande autore russo, era «tramato dal Vangelo». Come ha fatto l’uomo «passato dal crogiuolo del dubbio» a scoprire su cosa poggiare l’esistenza? Parla Tat’jana Kasatkina, che lo studia da una vita. E che grazie a lui ha scoperto la fede

«La mia non è stata una scelta: mi sono imbattuta in Dostoevskij a undici anni, leggendo L’idiota. Da allora non l’ho più lasciato, non saprei concepire la mia vita se non insieme a lui». Tat’jana Kasatkina, classe 1963, è collaboratrice scientifica dell’Istituto di Letteratura universale dell’Accademia delle Scienze russa e dirige la Commissione di studio di Dostoevskij, creata otto anni fa presso l’Accademia. È quindi una dei massimi esperti dello scrittore al mondo, avendone anche curato una raccolta di opere in nove volumi. Ciò che la lega a Dostoevskij è ben più di un interesse accademico. Cresciuta in un Paese che propagandava l’ateismo e aveva messo al bando la Bibbia («il primo Vangelo clandestino m’è arrivato a 17 anni»), è grazie all’autore di Delitto e castigo che la Kasatkina ha scoperto la fede: «Quando il regime ha tolto Dostoevskij dall’indice degli autori proibiti, è saltato il coperchio che mi oscurava il cielo. E si è aperto uno spiraglio per un’intera generazione». La Kasatkina, che nei giorni scorsi era in Italia per partecipare a un convegno su Vasilij Grossman, ha parlato della speranza in Dostoevskij davanti a centinaia di studenti all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Firenze. Sorprendendo, tra l’altro, molte analogie tra il grande scrittore russo e don Giussani (lo scorso aprile la Kasatkina aveva presentato Si può vivere così? alla Biblioteca dello Spirito di Mosca): «Vedono le cose nello stesso modo». Un esempio? «Per entrambi il cuore del cristianesimo è la Presenza di Cristo. Non un avvenimento confinato a 2000 anni fa, ma qualcosa che riaccade in continuazione».

Quali consonanze ha trovato nell’esperienza di speranza che ci hanno testimoniato due persone così lontane fra loro nel tempo e nello spazio?
Riflettendo su questo tema, mi sono accorta che le analogie sono molte di più delle differenze. È una riprova del fatto che il cristianesimo nella sua profondità ultima è unitario, produce i medesimi frutti e non può essere altrimenti. Don Giussani parla della speranza nei termini di una Presenza, che c’è e verso cui, al tempo stesso, dobbiamo continuamente tendere. In altre parole, ci mostra che Dio ha già fatto il suo passo e aspetta la mossa dell’uomo, restando umilmente in attesa. Direi che don Giussani non parla tanto o soltanto della speranza che l’uomo ripone in qualcosa o in qualcuno, ma pone l’accento su Dio, che nonostante tutto continua a sperare nell’uomo: «Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Ebbene, è esattamente ciò che dice anche Dostoevskij.

In che senso?
La sua opera è tutta volta a scoprire il manifestarsi dell’immagine di Dio nell’uomo, un’immagine che parrebbe terribilmente offuscata, alterata, distorta, una sorta di icona annerita e deturpata, ma che tuttavia non viene mai meno del tutto, è indelebile perché si regge su quella promessa di fedeltà: «Continuerò sempre a bussare». Lui resta immutabilmente fedele, e proprio questa è la nostra speranza: la speranza in una Presenza presente qui, ora e sempre, alla nostra porta, in attesa della nostra libertà. Dio è sempre disponibile, noi invece lo siamo raramente. Nel Diario di uno scrittore Dostoevskij ad un certo punto ammette che i cristiani autentici sono pochi, troppo pochi, sembra quasi che non ne esistano più. Ma subito dopo si chiede: ma che ne sappiamo di quanti cristiani autentici occorrano perché nel mondo non soccomba la grande speranza?

Speranza, grandezza, bellezza… sovente si dice che in Dostoevskij le figure più grandi sono quelle negative, tenebrose, mentre al contrario le figure “positive” sono incompiute, imperfette. Dostoevskij, cioè, sarebbe il genio della “disperazione” umana, della dolorosa impossibilità di tradurre in realtà la speranza…
Io sono categoricamente contraria a questa interpretazione: il problema è piuttosto l’incapacità del nostro occhio di vedere, di recepire la bellezza autentica - così discreta, “in attesa”, proprio come Cristo. Al contrario, la falsa bellezza è vistosa, aggressiva, si impone con la sua ingombrante presenza e non chiede permesso a nessuno per farsi strada nella nostra anima. Nell’opera di Dostoevskij esistono splendide figure positive, portatrici dell’autentica bellezza, dell’autentica speranza; siamo noi che non riusciamo a coglierle. Basti pensare ai capitoli dedicati allo starec Zosima nei Fratelli Karamazov. E viceversa, pensiamo al celebre colloquio tra Ivan e Alëša: Ivan, nella sua ribellione, impone la propria personalità, il proprio volere, e pur dicendo al fratello minore di non voler interferire nella sua vocazione, in realtà gli dichiara apertamente di non essere disposto a “cederlo” allo starec Zosima.

Dostoevskij scriveva: «Il mio osanna è passato attraverso il crogiuolo del dubbio»…
Conosce tutta l’ampiezza del male umano, ma conosce anche il vero, e non se ne difende. È questo il punto, perché la verità la conosciamo anche noi, la conosce lo stesso Ivan, che pure si trincera dietro il rifiuto di Dio in nome degli orrori e delle sofferenze inflitti ai bambini innocenti. E noi tutti, di primo acchito, saremmo disposti a sottoscrivere il suo rifiuto che una madre possa perdonare l’aguzzino di suo figlio - non ha il diritto di perdonarlo neanche se il bambino stesso lo perdonasse! Ma così facendo, acconsentendo a questa posizione apparentemente “umana”, che cosa produciamo in noi e intorno a noi, in realtà? Dostoevskij ce lo mostra subito dopo attraverso lo stesso Ivan, che racconta, per introdurre la storia dell’Inquisitore, un’antica leggenda bizantina in cui la Madonna, dopo aver visto i tormenti dei dannati, implora pietà per l’umanità peccatrice. Quando, per tutta risposta, Dio le mostra le mani e i piedi del Figlio trapassati dai chiodi, chiedendole come si possano perdonare i Suoi carnefici, Maria ordina a tutti i santi, i martiri, gli angeli e gli arcangeli di prostrarsi per chiedere misericordia per tutti gli uomini, indistintamente. Di fronte a questo quadro, noi comprendiamo che accettando la logica di Ivan, il rifiuto del perdono, l’umanità perderebbe ogni possibilità di essere perdonata, amata, riscattata. La Madre del Crocifisso non solo perdona i carnefici del Figlio, ma ne diventa madre, protettrice, speranza, nonostante tutto il male commesso, svelando così quale sia la bellezza autentica, reale, che corrisponde al cuore umano.

Il secolo di Dostoevskij è stato l’epoca dell’utopismo, di una speranza riposta nelle mani dell’uomo. Oggi, più stancamente e meschinamente, spesso l’umanità sembra rifugiarsi in speranze consolatorie, in un ragionevole egoismo. Come ritrovare, allora, l’autentica speranza?
Dostoevskij ci svela che il cristianesimo è un grande paradosso, proprio dal punto di vista della ragione terrena intesa come misura di tutte le cose. Non esiste bellezza, non esiste verità, non esiste speranza, in definitiva, se si smarrisce il nesso con l’altro mondo, che fonda e dà significato a tutto ciò che esiste in questo mondo. Dobbiamo continuamente riguadagnare una logica che non è la nostra, ma che riconosciamo come più vera, umana e corrispondente al nostro cuore di quella che useremmo istintivamente. Impressionante come per Dostoevskij la realtà sia totalmente tramata dal Vangelo, come per lui il Vangelo e la presenza viva di Cristo siano un continuo riferimento rispetto a ciò che accade, dalle vicende personali ai fatti di cronaca che lo scrittore commenta nella sua pubblicistica. Dietro ad ogni immagine evocata da Dostoevskij vediamo la realtà viva, esistenziale, di Cristo, che noi invece abbiamo ridotto a percezione puramente estetica, manierata. La generazione di Dostoevskij era vicina a questi temi; lui stesso, in gioventù, aveva percorso la via di Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo, paradigma dell’uomo creato a immagine di Dio che si trasforma nell’Anticristo perché vuole emulare Cristo operando nel presente, con le sue sole forze e rifiutando Dio, la salvezza.

C’è un’immagine che rappresenti la nostra epoca e le sue false speranze?
Pensi alla giovane Liza (nei Fratelli Karamazov) che si immagina di crocifiggere un bambino innocente e mentre questi muore fra i tormenti lei gli sta davanti mangiando il suo dolce preferito, la marmellata d’ananas. Rispetto a questa scena la critica generalmente grida al mostro, al pervertito; in realtà - se ci pensiamo bene - quella è la nostra raffigurazione, è l’immagine del mondo cristiano che, davanti a Cristo bruciante d’amore e di dolore, non trova di meglio da chiedergli se non la “marmellata d’ananas”, le mille cose futili e meschine in cui quotidianamente riponiamo la nostra speranza. Ma - ed è proprio qui la grandezza, la “positività” di Dostoevskij - da questo abisso di male Cristo ci fa risorgere attraverso l’evidenza che noi, che abbiamo rifiutato Dio, siamo delle anime affamate, assetate, che nessuna marmellata d’ananas può saziare. Niente può bastare all’uomo se non Dio stesso, un Dio che spera in noi ed è sempre qui ad attenderci.