Bersani La cosa in comune. Dall'utopia alla presenza

Storie
Davide Perillo

Insieme a don Massimo Camisasca e allo psicoanalista Claudio Risè ha presentato il secondo volume della storia del movimento. La stima per un’esperienza cristiana e umana

È la storia di un’amicizia vera, fatta di ragioni solide e radici ben piantate. E di una stima l’uno per l’altro che un po’ si diverte pure a sorprendere certi giornali agostani, abituati a ragionare per schemi e spiazzati dal fatto che sul palco di Rimini, a parlare de La ripresa (il secondo volume della storia del movimento, firmato da don Massimo Camisasca), assieme all’autore, allo psicoanalista Claudio Risè e al moderatore Roberto Fontolan ci fosse anche uno dei “capi” dei Ds. Eppure Pierluigi Bersani, 52 anni, ex pluriministro, oggi responsabile economico della Quercia (oltre che uno dei deputati più coinvolti nella trasversalissima “bicamerale della sussidiarietà”), al Meeting c’era già venuto, spesso e volentieri. Motivo? «Con i ciellini ho una cosa in comune: neanche per me la politica è tutto», ha spiegato a la Repubblica. Non è poco. Ma scavando viene fuori di più.
Piacentino di Bettola, Bersani viene da una terra dove molti, all’epoca, seguirono la sua stessa trafila (casa-parrocchia-Sessantotto), ma pochi si misero di fronte all’altra “parte” del mondo studentesco, e soprattutto a Cl, senza astio e magari con curiosità. Lui lo fece da subito, spinto anche da passioni sui generis: la filosofia medioevale, la storia della Chiesa... «All’origine della curiosità per Cl non c’era niente di politico», racconta a Tracce: «Era un interesse teologico. Mi ha sempre colpito il fatto che nel Medioevo ci fosse una chiara continuità tra teologia, filosofia e politica. È un filo che fa da matrice al pensiero occidentale. E in questo campo ci sono dei clou che mi hanno coinvolto parecchio». Esempi? «Il rapporto tra grazia e autonomia. O quello tra fede e mondo, il problema di come si possa agire da credenti nella realtà senza spiritualismi né separazioni. In fondo, è il tema del legame tra essere e fare. Argomento che riguarda anche la cultura laica, perché tutti sentiamo di essere qualcosa di più di quello che si fa».
La politica è subentrata dopo: le assemblee, le occupazioni... Le battaglie, anche. «Ho incontrato parecchia gente di Cl. E ho osservato, molto. Certo, ero sull’altro fronte. Ma avevo una chiave di lettura diversa da quella classica della sinistra. Per intendersi, l’accusa di integralismo mi è sempre sembrata banale. E poi dei ciellini mi colpiva una cosa: vedevo che lì il rapporto tra essere e fare funzionava. A cominciare dai temi classici dell’epoca, come il diritto allo studio. La mia parte spesso lo affrontava in modo ideologico. Loro no: accoglievano le matricole, facevano i gruppi di studio... E stavano in università».
Mai scattata una curiosità ulteriore? Mai fatto raggi, vacanze, Scuole di comunità? «No. Ma ho sempre cercato occasioni per discutere con esponenti di quel mondo. E sono stato molto attento alla sua produzione culturale. Don Giussani me lo sono letto. Non tutto, ma parecchio». E che cosa l’ha colpita di più? «L’idea di bellezza come strada alla verità, dibattuta anche negli ultimi Meeting. E i richiami continui ai suoi a essere più che a fare, bloccando sempre sul nascere i rischi di possibili derive». Come la famosa equipe del ’76, “Dall’utopia alla Presenza”... «Guardi, in fondo è anche la chiave del mio rapporto con Cl. Quello che chiedo ai ciellini non è di annacquare il loro vino, ma di fare in modo che quel vino sia un bene per tutti. Che ci sia sempre l’attenzione alle posizioni dell’altro». E secondo lei c’è o no? «Di solito sì». Ma lei ha amici di Cl? «Sì. Assolutamente. E devo dire che sanno cos’è l’amicizia».