I ragazzi de "L'Imprevisto"

Io sto con te

Daniel nella vita vuole «di più di una rapina». Andrea decide di tornare scuola. E Alessandra ringrazia chi l'ha arrestata... Siamo andati nella comunità "L'Imprevisto" a Pesaro, che aiuta i ragazzi a lasciare la droga (da Tracce, settembre 2010)
Fabrizio Rossi

«Solo una cosa non riesco a capire, in tutta ’sta storia: perché?». Quella della mamma di Simone è la domanda di tante mamme. Di chi, giorno dopo giorno, ha visto un figlio allontanarsi. Su una strada prima fatta di spinelli, poi di cocaina. Furti. Menzogne. E tanta solitudine. Quando sabato Simone ha rivisto i suoi, in un paesino dell’entroterra marchigiano, davanti a quella provocazione non ha saputo che dire. E adesso la rilancia da un capo all’altro della tavolata a ferro di cavallo, lasciando ventidue ragazzi senza parole. Solo il rumore di un treno rompe il silenzio. Qualcuno guarda il mare, oltre la vetrata del salone.
Siamo all’Imprevisto, la comunità terapeutica educativa che a Pesaro recupera minori devianti e tossicodipendenti. Ma qui preferiscono chiamarli “pericolanti”, per ricordare che tutti nella vita corriamo dei pericoli. E che «un imprevisto è la sola speranza», come dice quel verso di Eugenio Montale che ha ispirato il loro nome. L’importante è che qualcuno ci aiuti a rialzarci, come avviene ogni giorno in questa ex colonia sulla statale che porta a Fano. Una villetta gialla di tre piani, immersa in un parco di pioppi e tigli. Con un costone di roccia alle spalle e, davanti, la ferrovia e l’Adriatico.

Latte o caffè. «E voi cosa avreste risposto?», chiede Silvio Cattarina. Baffi e occhi chiari, camicia a righe e bretelle blu. Classe 1954, Silvio potrebbe essere il padre di questi ragazzi. Lo è, in fondo. È lui che vent’anni fa ha aperto l’Imprevisto. E adesso è al centro della tavolata, a tenere l’assemblea delle 11. I ragazzi riflettono, nessuno si fa avanti. «Vedete? Serve un lungo cammino. Quando saprete rispondere alla mamma di Simone, ce l’avrete fatta. Magari ci vorranno mesi o anni, ma quello di sicuro sarà un gran giorno. Un bell’imprevisto».
Lo sa bene Silvio, che non aveva mai progettato di fare questo lavoro. Né si sarebbe mai immaginato di lasciare il Trentino e Storo, il paesino di 4mila anime in cui è nato, per finire in collegio a Pesaro («qui noi figli dei postelegrafonici non pagavamo nulla»). Un imprevisto, appunto. Come l’incontro con Cl alle superiori e poi nei corridoi di Sociologia, a Urbino, dove era un leader degli studenti leninisti. Poi la laurea. Il matrimonio. Il primo lavoro: spazzino. Fino all’idea di un amico: «Don Gianfranco Gaudiano cerca un operatore per la sua comunità di Gradara». «Con i drogati, mai!». C’è rimasto dieci anni. Quando, il 1° ottobre 1990, ha fondato l’Imprevisto, erano fra i primi in Italia a lavorare con minorenni.
Ragazzi come Daniel, 17 anni, che da bambino a Bologna aveva iniziato «quelle cose che ti portano sempre più in basso»: risse, furti, spaccio... In banda con lui, il fratello e il padre. Finita la comunità, è andato a trovarlo in carcere e gli ha detto ciò che aveva visto qui: «Nella vita voglio più di una rapina». O Serigne, che a 16 anni è venuto dal Senegal in cerca di lavoro. Ma che, già dal viaggio in gommone, ha capito che non andava incontro al Paradiso che pensava. E chissà che fine avrebbe fatto, se la Questura non l’avesse spedito in comunità. O, ancora, Andrea, 16 anni, siciliano. Cresciuto in una famiglia divisa, dove ha conosciuto presto cos’è la violenza. Ma anche per lui è accaduto un imprevisto, con la faccia di un giudice. Così ora è qui. Alle 8, quando gli altri scendono per la colazione (la sveglia è alle 7.30, ma subito ci si lava e si rifà il letto), li aspetta con casacca e cappello da cuoco: «Tè, latte o caffè?», chiede. Il resto, l’ha già messo in tavola: fette biscottate, pane e marmellata. Insieme a Riccardo, ventiduenne di Forlì, oggi starà in cucina. Agli altri, i lavori vengono assegnati dopo la colazione: «Francesco, giardino». «Antonio, pulizie». «Mauro, officina»... Prima di iniziare, però, l’operatore di turno dice due parole per affrontare la giornata. Oggi, Valerio: «Ricordiamoci sempre il motivo per cui siamo qui. Il cambiamento parte da questo». C’è giusto qualche minuto per una sigaretta e due parole, quindi ognuno al suo. Eugenio si arma di scopa e paletta, Simone stira le lenzuola. Stefano pulisce i vetri, Roberto passa l’aspirapolvere nelle stanze. Appuntamento in salone fra un paio d’ore, per l’assemblea delle 11. Uno dei momenti più importanti, insieme a quella delle 18. Sul tappeto si mettono questioni di ogni tipo: «Vogliamo interessarci di tutto, da come uno si pettina a come si allaccia le stringhe», spiega Dicio, l’operatore che la tiene questa mattina con Silvio. Oggi, per esempio, il tema è la comunità: «Che valore ha per te?». Secondo qualcuno, delle persone così giovani non avrebbero mai retto tutte queste ore di confronto serrato. «Invece noi vogliamo essere all’altezza del grido del cuore», racconta Silvio: «Anche del più ferito, incatenato o sordo. Posso essere leale con il bisogno dell’altro, solo se lo sono con il mio».

Occhi in ascolto. E basta guardarli, per capire cosa nasce quando un ragazzo viene sfidato per quello che è davvero. Nessuno parla sopra l’altro. Si alza la mano. Ma, soprattutto, colpiscono i volti. Sono gli occhi di chi ha sete, di chi non è già arrivato. Di chi ne ha passate tante, anche sbagliando. Sembra quasi che ascoltino, con quegli occhi. E non è questione di regole o di buona educazione. Il perché te lo dicono loro: «Prima mi isolavo. Invece l’altro è come uno specchio: mi mostra chi sono» (Riccardo, 24 anni, Cagliari); «Lo sguardo di chi ho a fianco mi dà la forza per andare avanti» (Marco, 21 anni, Pesaro); «Quando sbaglio, c’è sempre qualcuno pronto a ripetermi la stessa cosa anche mille volte» (Lorenzo, 18 anni, Pesaro). O, come ha detto un ragazzo qualche anno fa: «Fuori avevo donne, soldi e droga. Qui non ho niente, ma ho delle persone che mi guardano in un modo speciale. E quindi ho tutto».
Perché noi cerchiamo proprio questo, e non basta una risposta fatta di parole. Un giorno Davide è scappato dalla comunità, e Dicio è andato a cercarlo per tutta Pesaro. L’ha trovato in stazione: «Dove vai?». «Parto». «Ok, vengo con te». «Fin dove?». «Fin dove vai tu». Davide quel treno non l’ha mai preso. Era davanti a uno che non aveva paura di sporcarsi le mani con lui. «Ecco, ci vuole qualcuno che stia con te», racconta Silvio. «Che non si spaventi della tua paura: questa è l’educazione».

«Ci si guarda in faccia». Questo “stare con” lo ritrovi in ogni proposta. Come nei lavori, dal tagliare l’erba del parco al lavare vestiti per tutti. Poi c’è «l’officina» (ufficialmente la cooperativa Più in là, sempre in omaggio a Montale). Un capannone a una manciata di chilometri dall’Imprevisto, dove nascono mobili su misura, arredi per giardino e pannelli antirumore. Sotto la guida di Fausto, Lucio, Edoardo e Fabrizio. Un ex imprenditore, un manager in pensione e due ospiti di vecchia data dell’Imprevisto. Su un’asse di compensato, sono schierati cavi grigi, neri e rossi: Ibrahim e Stefano, 19 e 21 anni, li stanno cablando per distributori del caffè e macchine da stiro. «Vorrei che tutto il mondo capisse che questi ragazzi sono un tesoro», racconta Silvio. E li raccomanda a chiunque. Amici, fornitori, l’idraulico della comunità, il panettiere: «Dico: “Fa’ lavorare un ragazzo! Ma guardalo, digli una parola al mattino e una alla sera, chiedigli come va. Sei tu che ci guadagni”». E qualcuno è stato assunto proprio dall’officina. Come Emilio, 29 anni, che nel 2009 ha finito il percorso in comunità e ora vive in una delle tre case di reinserimento. Con lui ci sono Massimiliano, che sta per finire l’alberghiero, Roberto, operaio alla Scavolini, e Andrea, che ha da poco ripreso l’istituto per elettricisti. Dall’Imprevisto a questa casetta color pervinca saranno trenta metri, ma è già un altro mondo: «Viviamo in autonomia», spiega Emilio al ritorno dal lavoro: «Nessuno viene a dirti cosa fare. Fai tu la spesa. Gestisci tu i soldi. Ma proprio qui si vede a cosa tieni». Come una famiglia: «E a cena ci raccontiamo la giornata», aggiunge Massimiliano, che oggi festeggia perché ha preso la patente: «Ci si guarda in faccia». A volte viene a trovarli Dicio, perché il rapporto con gli operatori continua: «Ci segue, fa un salto anche solo per una partita a carte», dice Andrea. Poi, quando sarà il momento, torneranno a casa: «Ma ci porteremo dietro tutti i volti che abbiamo incontrato».
È così che, un passo alla volta, ritrovi un ordine nella giornata. Riconquisti la realtà. I rapporti coi genitori («Con loro facciamo un incontro ogni mese», spiega Silvio: «Li ho sempre ammirati: sono quelli che conservano in cuore tutte le cose belle dei figli»). Dicono proprio così: «riconquisti».

Stracci e sigarette. È quel che sta scoprendo Alessandra, jeans e felpa grigia, da quasi due anni ospite del Tingolo per Tutti (la comunità femminile dell’Imprevisto, nata 13 anni fa): due appartamenti al secondo e terzo piano di una palazzina nel centro di Pesaro. Lì incrociamo due ragazzini che si fermano al primo piano: «Qui nel 1994 abbiamo aperto Lucignolo, un centro diurno per minori a rischio», spiega Silvio. «Un luogo di amicizia», al tempo stesso doposcuola e consultorio per le famiglie. Valentina, 14 anni, ci va da due giorni. Silvio la vede per la prima volta e già la sfida come se la conoscesse da sempre: «Ma tu sei felice?». Un sorriso, due battute. Poi sale al piano sopra. Il tempo di riporre spugne e secchi, e tredici ragazze prendono posto attorno al tavolo. In una sala con gli infissi lilla e, da luglio, le pareti arancioni. Con loro ci sono due operatori: Grazia, che è dentro a quest’avventura dall’inizio, e Augusta, la prima di quattro figli di Silvio: «Non avrei mai scelto questo mestiere», racconta. «Ma, davanti alla bellezza che vedevo, mi sono detta: non voglio perderla». A turno, qualche ragazza legge un foglietto: «Jessica, meno uno: hai lasciato in giro lo straccio». «Sara, meno due: hai scongelato la carne senza permesso». È il momento delle ricevute: un errore o una distrazione significa meno sigarette per quel giorno, o un compito più pesante. Anche questo fa parte del lavoro su di sé. Un’esagerazione? «All’inizio mi arrabbiavo», ammette Delia. «Così, però, ho visto che ciò che faccio ha delle conseguenze. Fuori, sai, non si tratta solo di straccetti e sigarette...». «Ho capito che il punto è obbedire alla realtà», dice Susanna: «Se c’è sporco, bisogna pulire». Ma cosa sarà mai una scopa fuori posto? «È quello che pensavo», spiega Caterina. «Invece mi è chiesto tanto e subito: nessuno mi considera una vittima».

Più dell’eroina. E quel «tanto e subito» non è una passeggiata: «Dal primo giorno mi hanno tolto tutto: piercing, vestiti, cellulare...», racconta Federica. «Ero arrabbiata. Ma mi sono chiesta: bastava a colmarmi? Allora qui ho scoperto quell’essenziale che mi è sempre mancato». Quel «di più» che rincorrevano, nell’alcol o nell’eroina. Solo per questo, Alessandra ora può benedire «gli angeli della Guardia di Finanza» che quella sera l’hanno fermata. E Susanna dire: «Se quel che ho fatto è servito per trovare ciò che ho ora, lo rifarei cento volte». Silvio la incalza: «Lo stesso vale per me. Questa bellezza è donata anche a noi. Non siamo qui per offrire un servizio: che ingiustizia, se un adulto avesse qualcosa che io non ho. Invece una cosa così può essere solo incontrata. È la grande avventura della vita».

Sul poster. È l’avventura di chi rinasce. Di chi accetta di essere generato. L’esatto contrario di quella menzogna che, fin dai primi anni, faceva arrabbiare Silvio: «Chi si droga dice: “mi faccio”. Che drammaticità, è impossibile. Come dire: “La vita non mi ha dato ciò che prometteva, allora mi faccio io. Da solo, con le mie mani”». Invece, come racconta a cena (cucinano sempre i ragazzi, oggi pennette alla Norma e frittata di zucchine) Cristiano, di Castrocaro Terme: «Sto imparando dal rapporto con gli altri: se no, da solo sbatto la faccia contro il muro». Per questo c’è la comunità: «Ti apre gli occhi e ti insegna a rialzarti», spiega Edoardo, di Porto San Giorgio. Tanto che ieri, davanti ad una ragazza piena di risentimento verso il fratello, s’è sentito di aiutarla a sua volta: «Le ho detto: “Guarda che non perdoni un altro per fargli un favore, ma perché tu possa trovare la pace”». È una scoperta grande, come quella di Omar. Bolognese, a 17 anni ma già con una lunga storia alle spalle, ti dice che la vita è buona. Eppure ha perso da qualche mese la mamma, e il papà non l’ha mai conosciuto: «Ma qui sto intuendo che questo dolore c’è dato per un compito: siamo chiamati a portare ciò che riceviamo in tutto il mondo». Silenzio. Passa un altro treno.
È ora di andare. Mentre sparecchiano, mi ferma Omar: «Guarda che la comunità è per tutta la vita. Questo è il bello». E mi mostra le foto alle pareti. Adesso è la sua storia, anche se molti di quei momenti non li ha visti: gite sulla neve, saggi di judo, incontri con chi ha visitato la comunità (D’Alema, il cardinale Scola, il comico Paolo Cevoli, perfino il re di una tribù nigeriana...). Poi fissa una cornice: «E questo l’hai letto?». È un vecchio poster dell’Imprevisto, coi versi di Montale che hanno dato il nome alla comunità: «Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / ch’è una stoltezza dirselo». Una stoltezza, Omar? Lui sorride, poi si fa serio: «Certo che no».