Era mio padre

LETTERATURA - INCONTRI
Martino Cervo

«Mi ha insegnato che la verità arriva solo dall’esperienza». Parla IGNAT SOLZENICYN, musicista e figlio dell’autore di Arcipelago Gulag, di cui Jaca Book pubblica un inedito giovanile. Ma dove c’è già l’idea di tutta la sua opera: la linea di confine è nel cuore dell’uomo

Da sotto la porta dello studio del padre veniva una musica bellissima. La seguì prima con l’orecchio e poi con i passi. Bussò appena, e si affacciò. Lui alzò l’indice, senza parlare, con uno sguardo rivolto al figlio a dire: silenzio, siediti. Stettero uno di fronte all’altro, aspettando che le note del pianoforte e dell’orchestra finissero di rincorrersi, per trovarsi nel silenzio: «Questo è Beethoven», disse Aleksandr Isaevic Solzenicyn.
Ignat aveva 10 anni, abitava col padre, la madre e i fratelli nella casa del Vermont dove l’autore di Arcipelago Gulag ha vissuto per oltre un decennio dopo essere stato cacciato dalla sua Russia. Oggi Ignat ne ha 40, è un affermato pianista e direttore d’orchestra, nel pieno di una carriera iniziata anche grazie alla melodia sentita nel giradischi del padre. Tracce lo incontra a Milano, dove è ospite di Jaca Book, che ha appena tradotto e stampato una fondamentale opera del Nobel 1970, ancora ignota al pubblico italiano. Si tratta di Ama la rivoluzione!, straordinaria prova giovanile (la stesura precede di 14 anni il capolavoro Una giornata di Ivan Denisovic, apparsa a puntate su Novy Mir nel 1962) custodita per oltre 50 anni: è uscita in Russia solo nel 1999, per volontà dell’autore, che non l’ha modificata in nulla rispetto alla versione originale.

Nella presentazione lei ha evidenziato come in quest’opera, che racconta di un giovane soldato dell’Armata Rossa costretto a disilludersi sul comunismo, ci fossero già i pilastri che poi avrebbero sostenuto tutta la creazione di Solzenicyn: il dramma della verità e l’irriducibilità della libertà umana. Può spiegare perché e in che modo questo abbia a che fare con la sua vita e il suo lavoro?

A distanza di anni, mio padre si stupì della qualità letteraria del testo che ora potete leggere grazie alla traduzione di Sergio Rapetti. Malgrado la successiva maturazione di scrittura e di coscienza, la tensione morale caratteristica dei suoi lavori è qui già intatta: la battaglia è nel cuore dell’uomo. Lì passa la linea di confine ogni giorno, e non c’è condizione che tolga questo scontro, né la più forte delle ideologie, e neppure la più fiera delle avversioni a questa ideologia. Solo un impegno personale permette il rapporto con la verità. In questo c’è un grande legame con Dostoevskij: questa dimensione morale arriva a influenzare il lettore non tramite la storia o la politica, ma plasmandolo con la forza dell’arte. Ecco, la cosa che ho imparato da mio padre è che la verità può soltanto arrivare dall’esperienza, mai dalle idee o dai pensieri. Se penso al mio lavoro di musicista, devo rispondere alla stessa domanda bruciante: quest’arte è vera o no? Non devo affaticarmi per dare io alla musica un significato che essa ha già. La verità non è una cosa alla Ponzio Pilato, o per la quale occorre leggere Kant o Schopenhauer, ma un cammino quotidiano.

Il rapporto con suo padre è stato un aiuto concreto in questo cammino?
Certo, è stata sempre, in ogni momento della mia vita, la persona più interessante con cui abbia avuto a che fare. Da piccoli ci insegnava la Matematica, le Scienze e la Fisica, partendo dalle cose comuni, in modo discreto. Perché il lago è più freddo di notte che di giorno? Perché gli oggetti cadono verso il basso e gli uccelli volano? E così spiegava a noi bambini le leggi della natura. Non ci ha mai fatto grandi discorsi di filosofia sulla libertà e sulla verità, ma viveva con noi, anche durante le sue assenze, interessandosi a quel che ci capitava.

E di politica, della Russia, del comunismo, parlavate?
Io sono nato in Russia ma da piccolo ho seguito mio padre prima in Svizzera e poi in America. La preoccupazione per la sua patria è sempre stata un chiodo fisso, fin dai miei primi ricordi. Era impossibile non parlare dell’Afghanistan, della Polonia, di Reagan, di Granada, del Nicaragua, della crisi dei missili, poi del 1989, del Muro. Il 19 agosto del ’91 ero con mio padre, di rientro da un viaggio a Londra: vidi con lui la caduta della statua di Dzerzinskij sulla piazza della Lubjanka. «Finalmente è fatta!», sospirò mio padre con gioia profonda, indicibile.

Verso la fine della sua vita, Giovanni Paolo II, nel libro Memoria e identità (Rizzoli, 2005) definì il comunismo, che aveva contribuito ad abbattere, un «male in qualche modo necessario al mondo e all’uomo», perché quell’abisso rese possibile inimmaginabili opere di bene. Può dire qualcosa di simile a proposito di Solzenicyn, che in Arcipelago Gulag arrivò a benedire la cella che lo straziava?
Non conosco la frase, così è a dir poco scioccante. Ma se capisco il suo vero significato, sì: è stato così anche per mio padre. Non è certo un destino auspicabile, quello di vivere sotto il comunismo, ma certamente senza quella tragedia non sarebbe diventato lo scrittore che è. Una frase così però può essere pronunciata solo da chi ha vissuto su di sé il comunismo, e mette in guardia da un modo strumentale di raccontare cosa sia stato.

L’Italia ha potuto apprezzare Solzenicyn con grave ritardo, per motivi ideologici e politici. Che giudizio si è fatto di questo?
Nella visione globale, questo ritardo non ha significato. Certo, mi spiace, ma oggi la pubblicazione di Ama la rivoluzione! è un segno opposto. L’importante è che tanti possano leggere mio padre, non importa se in alcuni Paesi ci vorrà più tempo. Lui non ha mai perso un solo istante della sua vita, non si è mai fermato a un traguardo. Gli unici momenti in cui lo ricordo soddisfatto e in pace erano quelli in cui poteva tenere tra le mani una copia di un suo nuovo libro. Spero di poter continuare per lui questa gioia col materiale che ha lasciato ancora da pubblicare.

Di che si tratta?
Racconti, saggi letterari, poesie, prosa. Non romanzi corposi, ma c’è molto materiale che lui stesso ha voluto attendere a pubblicare, dando rigorose disposizioni a mia madre qualche anno prima di morire.

Quali erano i punti di riferimento letterari di Solzenicyn?
Amava completamente Cechov, che conosceva in profondità. Tra gli inediti, ci sono gli appunti in cui classificava e commentava i racconti del grande autore, dividendoli tra capolavori, opere imperdibili, e materiale che giudicava meno efficace. In un paio di occasioni, con tremore ho provato a sottoporgli autori che mi piacevano, cercando un suo giudizio. Tra questi ricordo Dürrenmatt e Lagerkvist. Sono contento di avergli suggerito la lettura del Barabba, che apprezzò molto.

La sua famiglia partecipava in qualche modo all’attività inesausta di suo padre?
Non posso dire che collaborassimo in maniera diretta. A me faceva trascrivere spesso registrazioni di interviste o conferenze. Una volta mi fece fare i conti con un complicato intervento sulla filosofia di un certo Wojtyla, ma solo dopo seppi chi era. Ogni tanto ci chiamava dicendo che aveva bisogno di aiuto. Ci disponevamo con mia madre ai lati del tavolo. A me spettava il compito di leggere ad alta voce i suoi manoscritti, scandendo la punteggiatura. Lui ascoltava, intervenendo per eventuali correzioni. Mia madre le annotava, facendo note sui fogli. Col tempo, siamo diventati piuttosto veloci...