Fino in cima per invidia

INCONTRI - AL CINEMA
Alessandra Stoppa

Ha fondato una casa di produzione per parlare «della storia d’amore tra Dio e gli uomini». Dopo aver incontrato (una sola volta) un prete che affermava: «Per credere in Dio, bisogna usare la testa». Il regista JUAN MANUEL COTELO racconta il suo lavoro. E cosa significa seguire chi ti porta in alto

«Mi facevano invidia. Come hai invidia quando vedi uno innamorato». Le persone che stava intervistando non si erano alzate un giorno decise a cambiare. E lui nemmeno. «Ho conosciuto dodici convertiti nel giro di un anno, senza volerlo. Ho pensato di essere perseguitato. Andavo a fare la spesa e temevo che la panettiera mi raccontasse la sua conversione». Alto, smilzo. La mimica alla Jim Carrey. Avere a che fare con Juan Manuel Cotelo non è banale. Sembra un bambino, ostinato fino al capriccio e molto curioso, diventato grande di colpo: chiede sempre perché, vuole capire, andare al punto, ti sfida, anche solo spalancando su una parola decisiva gli occhi chiari, grandi. Come a chiederti: ci avevi mai pensato? È uno che ti allarga la visuale, fino a ribaltarla.

Cosa vuol dire perdonare? Ha lavorato per venticinque anni come giornalista, oggi, a 47, è regista di lungometraggi. Il tema è uno e scomodo, Dio. Eppure l’Accademia del Cinema di Spagna lo ha nominato suo membro dopo il successo de L’Ultima Cima, la storia di un prete: uscito nel 2010, ha superato per numero di spettatori Sex and the City ed Harry Potter. Ad oggi è il documentario più visto nella storia del cinema iberico. Mentre Te puede pasar a ti (Può accadere a te) raccoglie le storie di conversione. Mette in chiaro: «Non sono un Disney Channel cattolico, non mi interessa fare del bene. Ma mettere l’uomo di fronte a Dio». Perché ci si è trovato lui per primo.
«Non ho programmato di cambiare. Del resto, tu esci di casa, e ti innamori. Succede. Non è un pensiero, non ci s’innamora con la testa...». Il suo santo preferito, non a caso, è Giovanni Battista. Lo hanno decapitato. Si picchietta la fronte: «È uno dei freni più grandi che ho. Dovrei tagliarmela, per andare più veloce». Gli piace, si vede. Parla veloce, pensa veloce, vuole vederci subito chiaro. Quando incontrava un convertito dopo l’altro, li metteva alla prova con tutti i dubbi, suoi e dei suoi amici non credenti. Cosa vuol dire perdonare veramente? Perché t’inginocchi davanti ad un pezzettino tondo di pane? Come fai ad essere certo che tuo padre è in cielo e non se n’è andato come questo foglio di carta se gli do fuoco? «Le loro risposte avevano la forza della verità. Incluso quando erano: non lo so». In certe persone cogli il vero: non sanno spiegarlo, tu non lo capisci, ma vedi che non stanno mentendo.

Spettacolo mozzafiato. «C’era sempre un momento, durante le interviste, in cui pensavo: vorrei essere così. Loro non “credevano” in Dio: avevano confidenza con Lui. Ne parlavano come del rapporto più stretto e reale, come io parlo di un amico. Avevano vissuto sempre in un braccio di ferro, ma ora li vedevi alleggeriti». Dice che l’uomo è come un albero che può decidere: basta, non mi faccio più attrarre verso l’alto. Ma allora comincia a piegarsi, con una tensione interna terribile. «È una grande sofferenza non seguire Dio».
Lui la fede l’ha ricevuta da bambino. Solo che per una certa parte della vita se n’è scordato. È nato a Madrid, in una famiglia cattolica, quinto di nove figli. I suoi hanno iniziato a pregare per lui prima che venisse al mondo: «A casa nostra la fede era come mangiare. Il fatto è che ti abitui e non ti chiedi nemmeno cosa stai mangiando. Solo negli ultimi anni mi sono reso conto del dono che avevo ricevuto». Ha dovuto riscoprirlo. «Vivi da sempre immerso in un paesaggio bellissimo, eppure solo a un tratto ti accorgi: ma com’è luminoso il sole! E il mare com’è bello, e gli alberi... Allora lì, vuoi quella bellezza sempre di più».
L’invidia ha fatto il resto. Innanzitutto, quella che ha sempre provato per la madre. Lui aveva solo 13 anni quando il padre, all’uscita della messa, è rimasto ucciso in un attentato terroristico. «Quel giorno la mamma ci ha chiamati tutti in una stanza: “In questa casa non entrerà né l’odio, né la tristezza. Vostro padre è in Cielo, e noi continuiamo a vivere come abbiamo sempre fatto, con gioia”. È stato così, da allora fino ad oggi. Era il 1980 e sembra passato un giorno. Non mi ricordo di aver fatto nessun atto di perdono, nessuno sforzo: è stato naturale. Come quando arrivavo angosciato per qualcosa e mia madre mi diceva: “Se non puoi risolverla, passala a Lui, e dormi tranquillo”».
Quando tutto questo era ormai assodato, è arrivata l’invidia per i convertiti. Ma, ancor prima, la stessa attrattiva nascosta nell’incontro con don Pablo Domínguez, il protagonista de L’Ultima Cima. Cotelo si era negato per due mesi ad un amico che voleva fargli sentire a tutti costi questo giovane sacerdote, decano della Facoltà teologica di San Dámaso. Ci è andato per sfinimento. «Niente di più fastidioso: Valencia-Madrid per sentir parlare un prete!», si lamentava quel giorno con la moglie. Lei, profetica: «Vai, che domani ti sei già dimenticato tutto». Era il febbraio del 2009. «Sono quattro anni che parlo solo di Pablo», ride di gusto oggi, che è a Milano per questo: toccata e fuga per la prima di una serie di repliche del film in varie città italiane.

L’anonimato. Il giorno di quella conferenza a Madrid, Cotelo non rimane particolarmente colpito. È tutto intento a provare la nuova telecamera. Ma, una decina di giorni dopo, sente al Tg che don Pablo, a 42 anni, è morto scalando il Moncayo. «Non ho avuto chissà quale reazione. Ho solo pensato di far avere la registrazione alla famiglia. E mi ha un po’ sorpreso che fosse proprio quel prete...». Cotelo conserva ancora un’intervista a Tom Wolfe che ha letto nel 1984, per una frase: «La casualità è il travestimento che Dio utilizza per mantenere l’anonimato». Nel suo caso, Dio si è divertito parecchio.
Dal giorno della morte di Pablo, ha iniziato ad incontrare persone che lo avevano conosciuto e che gli parlavano di lui. Di come spendeva il tempo, di come li aveva guardati, capiti, abbracciati, con fedeltà, tutti i giorni, o una volta sola ma per sempre. Al funerale, tra tremila persone, c’era un barbone che piangeva senza freno. «Aveva parlato con Pablo due volte. Come puoi volere così bene ad una persona a cui hai parlato due volte?». Cotelo continuava a vedere quanto quel prete avesse inciso la vita di gente lontana dalla Chiesa, così come di preti , vescovi, della sua famiglia, degli amici. Ma li ascoltava e si diceva: «Esagerano. Per forza, è loro amico, è morto, cosa vuoi che dicano? Ma non è vero. Nessuno può essere così buono». Allora ha iniziato a fare domande più ostiche e scettiche. «Poi ho capito. Il problema non lo aveva Pablo, lo avevo io. Se mi parlano male di una persona, ci credo, anzi penso: avrà fatto anche peggio. Se me ne parlano bene, non ci credo. Misuro gli altri come me: in realtà, quello a cui non credevo è che potessi vivere anch’io così». Così come viveva Pablo. La sua vita parlava di Cristo, strabordava. S’innamorava di chi aveva davanti esattamente come dello spettacolo mozzafiato delle cime innevate.
«Ma se si rimane a Pablo, si rimane alla superficie», dice Cotelo. L’omaggio del film non è a lui. «Un Altro viveva in Pablo». Un Altro è così vivo oggi. «Un suo compagno di classe ha voluto dirmi il segreto di Pablo:?“È uno che a dodici anni ha detto a Dio: fai che si compia in me la Tua volontà. Si sono stretti la mano, e ognuno dei due ha fatto la sua parte”». È semplice. «Per noi lo è troppo. Per questo non ci crediamo», dice Cotelo: «Invece è così, c’è solo da decidere se rifiutare o accettare. Che c’è Qualcuno più grande di noi, che non siamo soli. Soprattutto accettare di lasciarsi amare. Gratis». Per lui Pablo è stato un «acceleratore della fede». Ora gli interessa solo ascoltare ciò che Dio gli chiede: «Basterebbe fare così», dice, e si chiude le labbra con le dita. «Questo ascolto, voglio impararlo. Mentre a parlarGli non ho problemi...». Lo fa sempre. Sull’aereo per venire in Italia, ha pregato: «Non so se qui c’è qualcuno in dialogo con Te, qualcuno che Ti conosce. Ma Tu perdonali, proteggili, abbi cura di loro. E aiutami ad amare oggi». Dice che tutto nella giornata è occasione: «Uno ti tratta male? È la possibilità di amare».

Un buon prete. Nel tempo, si è reso anche conto di quanto fosse preziosa quella conferenza, nel giorno del loro primo e ultimo incontro: «Pablo stava lottando contro il fideismo. Diceva che la ragione ti porta ad affermare il mistero, che l’intelligenza è uno strumento, non la misura della verità». E che per credere in Dio «va usata la testa». «Ma bene», precisa Cotelo che è felice di arrendersi a questo: «Io non so cosa accade quando prendo la Comunione, quando mi confesso. Non lo so. Ma mi cambia. Sarebbe irrazionale dire che non succede niente». Comunque, la cosa davvero inspiegabile è un’altra: «Dio sa tutto di me e non s’impressiona. Mi ama così». Come amava Pablo, portando gli altri in alto. In cima. Da dove si vede tutto, non un pezzettino.
Lui guardava così la vita e l’altro, per intero. Per questo Cotelo ha fatto un film su un prete che non era eremita, né missionario o esorcista, semplicemente un prete: «Perché la fede si testimonia esattamente come venti secoli fa. C’è una sola strada: un innamorato che non riesce a nascondere il suo amore».