O il nulla o il tutto

INCONTRI - FEDE E LETTERATURA
Carlo Dignola

È tra i più importanti autori italiani del Novecento. Eppure dimenticata dalla grande critica. La Resistenza nella sua terra, la Liguria. Poi il primo romanzo nel 1956. E ancora, l’incontro con Pasolini... ELENA BONO ripercorre la sua opera e la sua vita. Vissute di fronte a un aut aut estremo. Ma dove la Grazia «è stata tutto»

A 91 anni, Elena Bono è uno dei pochissimi importanti scrittori italiani del Novecento ancora in vita. La sua è una lingua ricca, affascinante, fitta di citazioni storiche, classiche, filosofiche. Per Stas’ Gawronski è la maggiore autrice del Dopoguerra. Il critico Giovanni Casoli l’ha definita «la più grande scrittrice vivente, anche se è stata oscurata dalla situazione attuale della critica». Dimenticata dai giornali e dalle antologie perché molto lontana dal mercato culturale: «È una scrittrice della realtà».
La sua opera è stata tradotta in inglese, francese, spagnolo, portoghese, arabo, svedese, greco. Nata a Sonnino, Lazio, nel 1921, esordì nel 1948 con la raccolta di poesie I fenicotteri. Il suo primo libro di narrativa, Morte di Adamo, uscì per Garzanti, nel 1956: fu un grande successo, anche a livello internazionale. Nice-Matin la salutò come «una rivelazione della letteratura italiana», il Daily Telegraph parlò di «una qualità numinosa» del testo.
Il primo romanzo della Bono, Come un fiume come un sogno, è un gioiello nascosto della letteratura italiana recente. Garzanti non si decise mai a pubblicarlo e uscì presso Emme Edizioni solo nel 1985; oggi, insieme a tutte le altre sue opere è disponibile grazie alla piccola casa editrice genovese Le Mani.
È il primo capitolo di una trilogia dedicata alla lotta partigiana. Alla radice del romanzo c’è un fatto avvenuto nel 1945 a cui la Bono, allora ventitreenne, ha assistito. I tedeschi presero tutti i soldati italiani feriti e mutilati tornati dalla Russia ricoverati all’Ospedale di Chiavari, li gettarono in strada e li uccisero. Una vecchia contadina ebbe il coraggio di prendere un soldato della Wehrmacht per la giacca e urlare in dialetto il dolore e la rabbia che nessuno aveva il coraggio di manifestare.
Il secondo episodio della trilogia si intitola Una valigia di cuoio nero (1998), ed è la storia di una giovane SS, di nome Tycho. Figlio dell’alta borghesia tedesca, diviene un fervente nazista. Egli in realtà disprezza i seguaci di Hitler, ma è malato, sia pure in modo nobile, dello stesso loro male: il nichilismo. Per questo segue la svastica, una ruota che va contro il cammino del sole, nel senso della morte anziché della vita. E la grande cultura tedesca - quella di Leibniz, Kant, Hegel - si affaccia sull’orlo del baratro. L’ultimo episodio della trilogia, Fanuel Nuti. Giorni davanti a Dio (uscito in due volumi, nel 2002 e 2003) è la storia del figlio di una prostituta che, al termine della vita, da un letto di ospedale racconta di sé.
Più conosciuta e rappresentata è la sua opera per il teatro: La grande e la piccola morte (Garzanti 1965), dedicata a Giovanna d’Arco, nel 2000 è stata in cartellone per un mese intero a Parigi. Ha scritto nel 2008 Sera di Emmaus, un quadro dalle tinte caravaggesche che racconta la storia di Jusuf, l’unico che a Gerusalemme di fronte a Ponzio Pilato domandò la liberazione di Gesù e non di Barabba, di cui temeva la vendetta.
Elena Bono vive a Chiavari in una casa d’inizio Novecento, ingombra di libri e di memorie. Ormai non vede più e sente molto poco. Attorno al suo letto, però, c’è una gran aria di festa. Un giorno passa a trovarla un prete, un altro i ragazzi delle scuole liguri, che restano colpiti dalla personalità di questa donna dura e cristallina come una pietra restata a concentrare le sue molecole per millenni sotto la terra. Si discute di Resistenza, di Beppe Grillo. Elena Bono manda telegrammi di felicitazioni a Giorgio Napolitano («Caro Presidente, siamo con lei, vivi e caduti per la Resistenza. Non ci abbandoni»), commenta l’ultimo telegiornale, dice la sua sul Governo Letta...
È cattolica la Bono, ma viene da una famiglia laica. Nel 1979 il Partito repubblicano la candidò per le prime elezioni parlamentari europee. Sua nonna era imparentata con Benedetto Croce, la famiglia del marito Gian Maria Mazzini era un ramo di quella del fondatore della Giovine Italia, «ma forse legata ancor più a quella di Garibaldi».

Negli anni Sessanta Pasolini lesse il suo racconto La testa del Profeta, su Giovanni Battista, e le chiese di poterne trarre un film.
Mi fece telefonare da un factotum del cinema italiano, un’eminenza grigia, un certo “commendatore”, che si entusiasmò: mi scrisse una lettera meravigliosa, promise mari e monti...

Lei però rifiutò l’offerta, dichiarando che non le sembrava il caso di celebrare «questo tipo di nozze mistiche».
A Pasolini non perdonavo che lui, fratello di uno che era stato ucciso, con tutta la Brigata Osoppo, dai comunisti, facesse il comunista.

Rinunciò.
Nel Vangelo secondo Matteo però ha alluso a quell’idea: mette sullo sfondo la danza di Salomè, e ne fa una ragazzina leggiadra, vestita di bianco, con la corona di rose in testa, un po’ come l’ho descritta io. L’ha presa dal mio libro perché è del tutto diversa dalla solita Salomè sensuale che fa la danza del ventre...

Lei mette in scena molti personaggi dei Vangeli, di cui è andata ricostruendo con la fantasia la storia. Cosa l’ha spinta a cercare di immedesimarsi in loro?
I Vangeli stessi.

Le guardie del Sepolcro, il proprietario del Cenacolo, Cusa, primo ministro di Erode, la figlia di Giairo, la suocera di Pietro... sono spesso figure di secondo piano.
Questo le rende più interessanti.

Hanno un’aria credibile.
Erano personaggi in cerca di autore. Sono venuti a cercarmi loro.

Anche secondo lei, come per Pirandello, non è l’autore che inventa un personaggio, ma il personaggio che trova un autore per potersi esprimere?
Un’opera d’arte non è qualcosa che si costruisce a tavolino. Io ho... registrato. La letteratura è sempre stata qualcosa che mi succede.

In diverse poesie ha cercato di immedesimarsi invece nella Madonna. Una Maria molto giovane.
«So di una ragazzetta che lavava lavava...». «Ecco già la fanciulla, viso d’oliva, muove che appena è l’alba alla fontana...». La fontana è Dio. Sorgente di Grazia, di vita.

Lei ha un profondo rispetto, una sorta di venerazione per la lingua.
Gesù è uno che dice pane al pane e vino al vino: «Dite sì sì, no no», raccomanda.

Ha cercato di vivere con questa nettezza.
Sempre. Tutta la mia vita è centrata nel fatto che Gesù stesso s’è voluto chiamare “la Parola”: Verbum. Io, da cattolica, ho sempre avuto un rispetto enorme, un sacro terrore della parola. Per questo, scrivendo, ho sempre rifiutato gli sperimentalismi. Dalla Scapigliatura lombarda in poi, invece, è stato un continuo violentarla.

Ha avversato questa tendenza, l’ha combattuta.
Sì. E mi è costato.

Si è creata delle antipatie nel mondo letterario.
Uhhh... Sa... È logico: chi va per la sua strada non s’imbranca. E trova molti sassi sul suo cammino.

Si è isolata o l’hanno isolata?
Un po’ tutte e due le cose.

Qual è il motivo vero per cui l’hanno dimenticata?
La gente è debole: va dietro alla moda.

Ha scritto una poesia in cui compare don Giussani, che chiama «il sorridente Illuminato». Lo ha conosciuto di persona?
Venne lui al Teatro Cantero di Chiavari. Parlava. Dopo ho scritto questa poesia in base a ciò che lui aveva detto. È un uomo che mi ha subito colpito.

Cosa, in particolare?
Quello che ha detto: che bisogna imparare anche a perdonare se stessi. Occorre imparare da Dio la misericordia non solo verso gli altri ma anche verso la nostra povera persona, con tutte le sue molte miserie corporali e spirituali.

“Misericordia” è un po’ la parola-bandiera di papa Francesco. È stata importante anche per lei?
Fondamentale. Se diciamo «Gesù mio, misericordia!», anche se abbiamo commesso i più atroci peccati Dio ci perdona.

Uno degli ultimi testi che ha scritto lo ha dedicato a una celebre convertita, Claudia Koll.
È venuta qui più di una volta. Non riusciva a trovare dei testi da interpretare e mi ha chiesto se potevo fare qualcosa per lei. In un primo momento le ho detto di no. Poi ho scritto Storia di un padre e di due figli, un testo ispirato alla parabola del figliol prodigo, in cui ho immaginato una figura femminile, Lia, tagliata perché Claudia potesse andare in scena interpretando se stessa. Lei però, in realtà, fa la regia di questo che è diventato un musical, lo porta in giro con i ragazzi della sua accademia.

I più giovani trovano spesso grande sintonia con la sua opera.
I classici sono sempre contemporanei di quelli che verranno.

Lei ha questo stile molto classico, infatti...
Sa, io ho tradotto Sofocle... Il contatto con i grandi scrittori antichi giova.

C’è qualche autore del Novecento italiano che ha stimato?
Ungaretti. Piovene. Bassani mi piaceva... Cassola no.

A più di 90 anni, come descriverebbe questo suo percorso letterario e anche di vita?
Come un servizio. L’ho sempre considerato un servizio. Mi è costato ma mi ha dato anche grandi gioie, però. Tutte interne. Incomunicabili.

Neppure nella scrittura è riuscita a dividerle con gli altri?
Cerco di lasciare una parola di speranza, non di disperazione.

A cosa serve la letteratura?
Aiuta a vivere.

Perché è così importante nell’esperienza umana?
È importante l’aria? È come mangiare, bere... Se uno non ha l’arte, non è più un uomo.

A pochi chilometri da qui abita Beppe Grillo: cosa pensa di lui?
Badate che c’è già stato il movimento Fronte dell’Uomo Qualunque, di Guglielmo Giannini... Non è una novità.

Si respira un’aria distruttiva, oggi.
C’è sempre stata, dall’Eden in poi. La disubbidienza. Il serpente disse a Eva: mangia di quell’albero e sarai come Dio.

Presunzione...
Superbia. Comincia lì, nella prima pagina della Bibbia.

Come si combatte?
Credendo. E devi scegliere: o sei per Dio o sei contro Dio, non c’è una terza soluzione. Il sì e il no, il peccato e la redenzione. C’è in noi questa forza brutale dell’animale della foresta, che nella natura ha imparato anche a difendersi, ma sempre comunque ad assalire. La rivoluzione di Cristo ha ribaltato tutti i termini, ha dato il primato alla debolezza e all’innocenza.

Lei sa mostrare anche i lati negativi dei personaggi positivi.
E viceversa. La vita è luce e ombra. Globuli rossi e globuli bianchi...

Elio Gioanola ha detto che un certo fideismo cristiano, nella sua fissità dottrinaria, rischia di essere nichilista come l’ateismo. La sua opera è stata una sfida al nichilismo?
È difficile dirlo. Io non faccio mai dei programmi, non mi sono mai detta: «Devo reagire al nichilismo». Le situazioni sono quelle che sono e l’uomo deve continuamente scegliere. Il dramma è questo: la scelta, costante, che dobbiamo fare tra la luce e le tenebre. O è un sì totale, che bisogna vivere, patire e scontare fino in fondo, oppure si è complici del male nel mondo. E la scelta non finisce mai. In punto di morte si è ancora di fronte all’aut aut estremo, il Nulla oppure il Tutto. E l’uomo in genere non sceglie il Nulla: siamo figli di Dio, dopo tutto.

Cos’è la morte, signora Bono?
Il momento in cui conosceremo noi stessi e i grandi misteri della vita umana.

È sempre stata chiara per lei la sua strada?
Sì.

Cos’è stata la Grazia nella sua vita?
Tutto. Non si può vivere senza la Grazia.