Laica inquietudine

ATTUALITÀ - L'INTERVISTA
Paola Bergamini

Quei giorni in redazione «c’era un modo diverso di lavorare». EZIO MAURO, direttore di Repubblica, racconta cos’è accaduto dopo la storica lettera di papa Francesco ad Eugenio Scalfari. Il riconoscimento della «tensione positiva di chi non crede», la presenza storica di Cristo «che interpella anche me». E tutti i segni che vede «di una novità che irrompe»

La gigantografia della prima pagina con il titolo «Il Papa: la mia lettera a chi non crede», è appesa nell’ufficio centrale della redazione. Prima non c’era nulla. «È stata un’idea dei giornalisti. Quel fatto storico ha scosso tutti. Il contenuto della lettera a Scalfari ci ha scosso. Non era una risposta formale. In quei giorni c’era una corrente particolare, una fibrillazione positiva, un modo diverso di lavorare. Avviene raramente. Dopo è stata aggiunta la gigantografia dell’11 settembre 2001», spiega Ezio Mauro, dal 1996 direttore de la Repubblica, all’inizio di questo dialogo che è diventato il racconto leale di qualcosa che è avvenuto a partire da quella lettera. Qualcosa che ha lasciato un segno, da cui difficilmente si torna indietro. Non una riflessione intellettuale. Forse per questo le domande prefissate a un certo punto sono saltate. Si è andati dietro al flusso delle riflessioni su ciò che è accaduto da quella lettera.

La prima volta che un Papa scrive a un giornalista. Poteva rispondere dalle colonne de L’Osservatore Romano o di Avvenire.
Appena Eugenio mi ha letto al telefono la lettera ho capito che avevamo tra le mani un documento storico, straordinario: non era una risposta tecnica, canonica, scritta dalle segreterie e poi corretta dal Papa, bensì una risposta impegnativa, che entra in merito ai problemi e poi, soprattutto, con la promessa di un dialogo. Come poi è avvenuto. E ha scelto il nostro giornale, che ha un’identità fortemente laica, anche se tradizionalmente attenta ai temi della Chiesa. Il Papa ci ha riconosciuti come interlocutori. Molto è dipeso sicuramente dalla figura di Scalfari. Francesco lo ha scelto come simbolo del libero pensiero laico, del non credente. Che è ben diverso dal pensiero dell’ateo.

In che senso?
Il non credente ha l’inquietudine di chi cerca di dare un significato alla propria esistenza ed è convinto che questo sia possibile attraverso ragioni che sono profondamente umane. Il Papa ha riconosciuto la valutazione positiva della coscienza come misura dell’umano. Lui è mosso dalla figura di Cristo, Figlio di Dio che si incarna e ritrova la natura divina nella Risurrezione. Lo ha detto: «Gesù ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza». Eppure, senza voler fare proselitismo, ha riconosciuto dignità morale, spirituale all’inquietudine del laico che si muove dentro la finitezza dell’umano, ma che tende al bene. Una tensione positiva di dare significato all’esistenza pur senza un legame esplicito con il trascendente.

Che cosa l’ha colpita, soprattutto?
L’attenzione all’uomo in quanto uomo, la sua elevazione come figura centrale indipendentemente da come la pensa. E poi che per il Papa Gesù Cristo è amore e verità. Amore e verità, come scrive nella lettera, che sono «relazione» con l’altro. La verità non è qualcosa che i più fortunati, i credenti, possiedono ed elargiscono.

Quando il Papa scrive che non c’è una verità «assoluta», ma che «la verità è una relazione», questo non significa però che faccia un passo indietro...
È troppo facile banalizzare. Il Papa non intende dire che l’Assoluto in cui i credenti credono diventa relativo, ma che la verità ci abbraccia e per questo noi dobbiamo abbracciare l’altro. Da questo mi sono venute alcune riflessioni su papa Francesco. La prima è questa: ha rinunciato al magistero della condanna per un magistero della misericordia. La croce brandita in passato da altri Pontefici era, a volte, una croce di monito, in cui si riflettevano le parole: «Pentitevi», o semplicemente: «Venite a Cristo». Oggi quella croce è nelle mani del Papa, ma sono mani che si allargano nel gesto della misericordia. Il passaggio dai precetti al Vangelo, dalla legge degli uomini di Chiesa alla legge di Dio. Francesco cambia i parametri. Se il Vangelo torna al primo posto, i precetti diventano utili complementi attraverso i quali la Chiesa adatta i comandamenti della sua fede alla vita quotidiana.

Sono un aiuto?
Uno strumento. Ma la fede è un’altra cosa. Se il Dio dei cristiani non è il predicatore di una filosofia, ma il Figlio di Dio che si incarna, quindi testimone protagonista di un avvenimento accaduto in un luogo, Betlemme, in un tempo, 2000 anni fa, precisi, allora si capisce che per chi crede non è possibile «mangiare e dormire come prima». Ridurre tutto questo a precettistica, a galateo è cristianismo. Una bestemmia, un’ideologia di pronto intervento. Per chi crede, il cristianesimo è un avvenimento, non un’ideologia.

E per chi non crede?
Rimane la presenza storica di Cristo che dicono fosse il figlio di Dio. E questo interpella anche me, non credente. Io mi fermo a Bulgakov quando ne Il Maestro e Margherita scrive: «Tengano presente che Gesù Cristo è esistito». Poi ognuno fa i suoi conti.

Con questo Papa i conti, i progetti, non tornano: sta scompigliando tutto. Le persone comuni si sentono attirate da questa fede concreta, proprio in un momento di confusione, di crisi.
Proviamo a mettere in ordine i segni di questi primi sei mesi di Pontificato. Dal quel «buonasera», appena eletto Papa. Come il «buon appetito» a cui ci ha abituato dopo l’Angelus. Il Papa entra nella nostra quotidianità. Sempre quella sera, c’è stato il richiamo insistito al Vescovo di Roma. Sant’Agostino dice: non c’è Vescovo senza popolo. Il Papa scende non solo dalla sedia gestatoria, ma anche dalla cattedra per stare in mezzo alla gente, il suo popolo. E subito dopo: «Pregate per me». Come a dire: «C’è qualcosa che da voi deve venire a me, siete un soggetto attivo dentro questa comunità di fede». A un mio amico, a cui ha telefonato, alla fine ha detto: «Mi ricordi nelle sue intenzioni», pur sapendo benissimo che non è credente. La stessa richiesta che ha fatto alla piazza.

E a Scalfari, nell’intervista successiva.
In questo caso c’è stata in più la volontà di fare «un tratto di strada insieme». La verità può essere conquistata insieme. Ognuno con le proprie potenzialità, ma c’è la possibilità di stabilire un ponte. Per quale fine? Per il bene comune, il bene dell’uomo che sta a cuore a entrambi. Mi viene in mente il passo del Vangelo quando Giuda arriva nell’orto degli Ulivi. La prima parola che Gesù gli rivolge è: «Amico». O il buon ladrone. In questa traiettoria le parole di Francesco: «Chi sono io per giudicare?» sono un altro segno di questa correzione di rotta dentro la Chiesa. Questo non significa smarrire la cognizione del bene e del male, bensì mostrare l’interesse verso l’uomo nella sua integralità, che è fatta di zone di luce e di ombra. Questa declinazione pacata del suo ruolo, dei suoi poteri fa inorridire i «conservatori», mi passi il termine. Lamentano lo smarrimento di un’autorità dogmatica, cattedratica, la mancanza di una distanza. Dicono: «Si mette troppo in gioco, è troppo semplice, rischia di essere troppo buono, un sentimentale». In sintesi: un Papa dal pensiero debole. Senza autorità.

Mi sembra che a proposito di autorità il Papa sia stato chiaro nella risposta a Scalfari. Tutto tranne che semplicistico.
Lo spogliarsi continuo dei simboli del potere spaventa chi cerca un riparo di potere nella Chiesa. Spaventa che l’autorità papale attinga solo dalla parola e dagli atti. Ho pensato che gli ultimi tre Papi possono sintetizzarsi così. Wojtyla, l’anima; Ratzinger, la ragione; Bergoglio, il cuore. E quest’ultimo aspetto spaventa. Come se la Chiesa potesse farne a meno.

Perché si stacca il cuore dalla ragione. Relegandolo nella sfera del sentimento. Mentre che la fede sia ragionevole papa Francesco lo testimonia in modo affettivo, abbracciando l’uomo in tutto.
Esattamente. A lui interessa l’uomo così come è. Non vuole cambiarlo prima. Per questo parla a tutti senza mai discostarsi di un centimetro dalla sua fede. Non si può non vedere che c’è qualcosa di sofisticato in questa azione del Papa che a volte viene scambiata per buonismo.

In che senso?
Parlare a un giornale attraverso una lettera e un’intervista vuol dire uscire dal pubblico costituito del popolo di Dio, significa dialogare con l’opinione pubblica che è il soggetto della modernità e giudica il potere. Un pubblico che può non conoscere il vocabolario, i simboli della fede. Da conquistare per entrare in dialogo. Se poi pensiamo che in quegli stessi giorni un altro Papa, ora emerito, Benedetto XVI, all’insaputa di Francesco, rispondeva a un altro non credente (a Piergiorgio Odifreddi; ndr) sempre attraverso il nostro quotidiano... C’è da pensare che esista una provvidenza anche per i giornali! O meglio: sono tutti segni di una novità che irrompe. Comunque, già prima della lettera volevamo sapere di più di questo nuovo protagonista della scena mondiale. Cercare il suo pensiero in una dimensione che non era ancora nota: il rapporto con il libero pensiero di chi non crede. Molti direttori di giornali stranieri mi avevano chiesto di inviare una lettera al Papa per chiedere un’intervista. Mi sembrava ancora presto. E poi...

Lui vi ha anticipato.
Già. Qualcosa in più. Sono contento per Eugenio, che tra poco compie 90 anni ed è sempre stato interessato alle questioni che stanno tra la filosofia e la dimensione religiosa dei fenomeni.

È l’inquietudine di cui parlavamo all’inizio?
Sì, ma attenzione: l’inquietudine di chi non crede, convintamente. Nel nostro mestiere, pur sapendo dell’effimero di un lavoro che finisce tutti i giorni mentre lo si compie, c’è la ricerca di un significato. È il pensiero che mi è sorto alla fine di questa vicenda. Nell’era dei “140 caratteri”, nel fiume di internet, i giornali, fatti di carta e inchiostro, rimangono il veicolo più adatto per le idee, per il pensiero. C’è la possibilità di prescegliere qualcosa che è costruzione delle notizie e del contesto: è la ricerca del significato delle cose, dei fatti che trattiamo. Si fa questo lavoro per la conoscenza, e la ricerca di senso è la ragione morale più alta per cui vale la pena farlo. Il fatto che il Papa abbia affidato l’interlocuzione con il pensiero laico a un giornale significa che ha visto questo. Non a caso ha telefonato a due firme de la Repubblica dopo aver letto i loro articoli; i nomi, naturalmente, non glieli posso dire. Ma mi viene da chiedere: fino a dove vuole arrivare Francesco? Avrà tempo? Troverà gli uomini giusti?

Il Papa ha chiesto di pregare per lui. Lo ha chiesto a tutti.
È vero. Lo ha chiesto al popolo. E poi c’è in lui questo sentimento di autenticità della sua fede. Con la lettera, con l’intervista ha aperto un dialogo con il mondo laico perché non si senta estraneo al suo percorso. Come se ci dicesse: «Non state fuori. Giudicate con la vostra coscienza, con il vostro metro, ma partecipiamo insieme alla ricerca del bene comune. Guardate all’uomo». È un richiamo a tutti; lo attendono, in qualche modo. Per me è stato evidente sin dall’inizio, quando la lettera è arrivata. Cosa che pensavo davvero improbabile. Solo Eugenio ne era certo. Potrei dire che l’attendesse.