Ivan Locke (Tom Hardy) in una scena del film.

In 85 minuti, il dramma di una vita

Un solo attore, unica ambientazione e il tempo di un viaggio per prendere una decisione: assumersi le proprie responsabilità o tornare alla vita di sempre? Una lezione di moralità, senza moralismi. Qualcosa di più di un film sui valori non negoziabili...
Maurizio Caverzan

Se lo racconti a qualcuno ti guarderà incredulo. Ma dài: un bel film con un solo attore al volante della sua auto, di notte, e con inquadrature sempre in primo piano: possibile? Vederlo per crederci: bello e insolito. Locke di Stephen Knight, con Tom Hardy (ricordate lo psicopatico Bane ne Il Cavaliere oscuro – Il ritorno?, niente di più diverso da questo ruolo), è stato la rivelazione dell’ultima Mostra del cinema di Venezia, dove per una complicata serie di ragioni, non era in concorso. Ora è finalmente nelle sale, poche purtroppo, presentato da una locandina fuorviante quasi in stile horror (Hardy è riflesso nello specchietto retrovisore con occhiaie profonde).

In realtà si tratta di un thriller esistenziale che tiene inchiodati per tutto il tempo della storia, gli 85 minuti che servono a Ivan Locke, un ingegnere che lavora a Birmingham per una multinazionale americana, per tornare a casa la sera dove l’attendono la moglie Katrina e i due figli adolescenti. La mattina seguente dovrà sovrintendere alla più imponente colata di cemento mai gettata in Europa a fondamenta di un grattacielo. Ma appena salito in auto, una voce femminile nel cellulare gli sconvolge i piani. Conseguenza di una notte di debolezza («La solitudine di una donna e un bicchiere di vino, c’è qualcosa di più vero?»), quella donna sta per partorire un bambino e ora Locke può scegliere due strade. L’auto sfreccia nel buio contrappuntato dalle luci dei lampioni, dalle insegne luminose e dai fari che vanno in direzione opposta. In totale solitudine questo uomo dall’aspetto granitico sceglie di non fuggire dalle sue responsabilità pur sapendo che questa decisione rischia di far crollare ciò che ha costruito in tutta la sua vita. Prima di quella telefonata, aveva una famiglia, una professione, una certa rispettabilità... Mentre guida nella notte si accavallano le voci che lo strappano da una parte all’altra. Quella della moglie che apprende del tradimento. Quella dei figli che lo attendono per guardare la partita in tv. Quella del capo che lo esige presente sul posto di lavoro. Quella del titubante operaio che lui incarica di seguire i lavori in sua assenza. Quella della donna che lo reclama al suo fianco al momento del parto. Tutto si sovrappone in una sequenza di emozioni, amarezze, incomprensioni, litigi, speranze, paure. Ma Locke ha un conto in sospeso con il destino, un’altra partita da giocare e che rischia di fargli perdere tutte le altre. E allora le parole più significative, dure e rabbiose, sono quelle che lui rivolge al padre morto che ancora odia a causa dell’inspiegabile abbandono.

Interpretato da un sorprendente Tom Hardy che, dentro un maglione pesante e una barba arruffata trasmette la solidità di un marinaio in piena tempesta, Locke è il felice esito di una sceneggiatura impeccabile e di una scrittura e una recitazione altrettanto ispirate (sperando che traduzione e doppiaggio non le tradiscano). Un piccolo gioiello, girato in due settimane e con budget contenuto. Una lezione di moralità, senza moralismi. Qualcosa di più di un film sui valori non negoziabili. Insieme a I sogni segreti di Walter Mitty è uno dei più bel film dell’anno.

Locke, 2013
scritto e diretto da Steven Knight, con Tom Hardy.
Presentato fuori concorso alla 70ª edizione della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.