Julianne Moore e Kristen Stewart in "Still Alice".

Cosa rimane, se non sono più io?

Il film sull'Alzheimer che sta facendo discutere. Un ritratto della borghesia occidentale alle prese con una domanda: ha senso vivere mentre si dissolve la nostra coscienza? Una pellicola che, con la commovente Julianne Moore, punta dritta all'Oscar
Maurizio Crippa

È la festa del cinquantesimo compleanno di Alice Howland, con lei c’è la sua bella famiglia: il marito John, chimico con ambizioni accademiche, i figli Anna, Tom e Lydia. Alice è una brillante linguista della Columbia University, è ragionevolmente felice di ciò che nella sua vita ha costruito. Il suo ambiente è la borghesia intellettuale newyorchese, agiata ed educata, pervasa dai migliori sentimenti liberal verso sé e il mondo. La casa di città è elegante e accogliente, quella sulla spiaggia anche di più, piena di luce e ricordi. I colori primaverili di New York sono morbidi, non c’è l’ombra di un dramma in questa ovattata atmosfera che sintetizza il meglio del nostro Occidente. Julianne Moore è molto brava; non a caso è candidata all’Oscar e ha già ricevuto altri riconoscimenti. Anche Alec Baldwin, brizzolato e sovrappeso, è perfetto nella parte del marito e padre buono, appena un po’ distratto dalla carriera.

Il dramma irrompe con piccoli flash, piccole dimenticanze e parole fuori posto, d’improvviso non più trovate, nella vita perfetta di Alice. Arriva la diagnosi: una forma particolarmente aggressiva, genetica, di Alzheimer precoce. Davvero insolito, per una donna di quella età. Ma inesorabile. Tutto il film (tutta la vita), nella sua cornice senza strappi né urla, diventa così il racconto della progressiva, angosciosa perdita di sé - perdita dell’io - vista dagli occhi di Alice, “dalla parte di lei”, che si vede scivolare via, nella perdita di ogni memoria e di ogni percezione del reale. La perdita delle parole che l’Alzheimer provoca (per una linguista, poi) è l’inizio dello svanire della memoria e dell’autocoscienza. Perdita di tutto. Malattia diversa dalle altre, perché priva proprio dell’essenziale, l’io personale. L’autrice del romanzo da cui Still Alice è tratto, Lisa Genova, è una neuropsichiatria; uno degli autori, Richard Glatzer, è affetto da sclerosi amiotrofica multipla: non si può certo dire che in questo lavoro manchino una partecipazione umana e una competenza particolari.

Questa è la vicenda che il film racconta. Ma poi, di che cosa davvero parla questo film, destinato a interrogare e commuovere anche il pubblico più smaliziato? Per capirlo è come se a nostra volta dovessimo dimenticarci un po’ di Alice, e guardare solo il mondo in cui vive. A volte, è la cornice che dà senso al quadro. Allora si scopre che il film racconta di Alice, ma parla della correttezza morale, se si può dire così, con cui si prova ad anestetizzare la malattia oggi. Parla di cosa l’uomo d’oggi pensa della vita (e della morte) sotto il cielo vuoto che s’è costruito. Quando le viene diagnosticata la causa genetica del male e anche i figli si sottopongono al test, l’unica a tenere un atteggiamento positivo è la figlia che sta programmando una gravidanza con inseminazione artificiale. Proseguire o no? E come vivere, poi, sapendo che un giorno la malattia prenderà anche te? La medicina predittiva è uno dei totem del nostro tempo: sapere e programmare prima (“scegliere”, si dice) non solo i passi della nostra vita, ma soprattutto quelli della nostra uscita di scena. Alice parla al telefono alla figlia, e il centro delle sue parole è un umanissimo: «Mi dispiace». E davvero è un sentimento umano inevitabile e radicale questa consapevolezza di donare, insieme alla vita, anche la radice della sua incompiutezza. «Nasce l’uomo a fatica / ed è rischio di morte il nascimento». La differenza la fa il modo con cui questa drammatica constatazione leopardiana viene accolta o silenziata. Il nostro mondo, la civiltà in cui siamo ogni istante immersi e di cui questo film sa essere - forse al di là delle sue intenzioni - uno specchio sincero e trasparente, è la civiltà che con disperazione ottusa cerca di sopire fino all’irrilevanza, fino alla non pertinenza quel grido, quel dolore, quel "mi dispiace". Magari, non è il caso della nostra Alice (forse il seguito del racconto ci confermerà in questa intuizione, forse no). Ma il film riesce, in questo punto a "far dire" alla realtà la sua domanda essenziale. Ed è a questa evidenza che Alice deve invece, e non vuole, arrendersi.

Così lascia un videomessaggio indirizzato alla futura Alice-non-più-se-stessa, ma che forse casualmente un giorno potrà vederlo: sono le istruzioni, con calma e in perfetta solitudine, che dà a se stessa per suicidarsi: «Poi sdraiati sul letto, e fai un bel sonno». La perdita di sé, fino alla inconsapevolezza, è davvero la più grande delle tragedie. Diventa incommensurabile, priva di qualsiasi valore per se stessi e anche per gli altri, quando avviene sotto un cielo divenuto vuoto di ogni presenza e destino. Sotto il bel cielo di New York non esiste altro se non i nostri singolari “io”. Perduti quelli, è perduto veramente tutto. Così Alice patisce quasi più la riprovazione sociale degli altri - eri qualcosa, non sei più nulla - che il proprio stesso male. «Vedi, tu insegnavi lì una volta, eri una persona in gamba», dice John alla moglie ormai immemore. Glielo dice con amore. Sembra lo dica al vuoto.

Davvero è così? Quando ormai di Alice sembra non restare più niente, e anche John ritiene di dover andare per la sua strada, c’è invece la figlia attrice e un po’ ribelle (ma non più di tanto) che torna a casa. Legge alla madre un racconto, lei non capisce. Rimane solo il loro rapporto. Che però, quasi a contraddire tutto il resto, è ben più del nulla. È come un’irriducibile presenza che rompe il bel cielo vuoto. Più in là.


Still Alice
di Richard Glatzer e Wash Westmoreland
Con Julianne Moore, Alec Baldwin.
Dal romanzo Perdersi di Lisa Genova (2007)