La locandina di <em>Les Misérables</em>.

Una libertà che merita di essere vista

L'opera di Hugo è tornata al cinema con un musical. La storia di Jean Valjean si alterna stavolta tra monologhi e canti che seguono il recitativo della lirica. Che colpisce anche chi non se ne intende...
Elena Fabrizi

Premessa: non sono una critica cinematografica né un’appassionata di musical. Studio: Lettere. E de I Miserabili di Hugo ho letto solo poche pagine. Eppure sono andata a vederlo, e uscendo dalla sala non ho potuto fare a meno di pensare che questo è davvero un film che merita di essere raccontato. Parlo di Les Misérables di Tom Hooper (regista che ha vinto l’Oscar con Il discorso del re nel 2011), nelle sale da fine gennaio. Così, lontana dal voler dare un parere da "esperta", provo a mettere nero su bianco le cose che mi hanno colpita.

Il film è tratto dal musical più longevo del West End londinese: Les Misérables di Alain Boublil e Claude Michel Schönberg. Scritto nel 1980, finora ha avuto un pubblico di oltre 60 milioni di persone.
Il film di Hooper ricorda, narrativamente, l'opera lirica, di cui riproduce il “recitativo”, ossia il “recitar cantando”. Tutti gli attori hanno cantato dal vivo durante le riprese e non in playback – come si usa di solito – registrando dopo le parti cantate. Il guadagno di questa scelta è lampante. Il canto permette agli attori una maggiore immedesimazione e libertà espressiva, come ha dichiarato Hugh Jackman, attore protagonista nella parte di Jean Valjean: «L’idea di cantare dal vivo può intimorire. Invece dà agli attori una grande libertà. Una storia come Les Misérables deve essere veritiera e spontanea». Sono rimasta stupita da come la musica e il talento di certi attori (Anne Hathaway è candidata agli Oscar come migliore attrice non protagonista) fossero così all’altezza di una storia epica di un uomo, fatta di miseria, pietà e redenzione.

Figura chiave è lui. Jean Valjean, detenuto 24601, che dopo 19 anni di prigione viene riscattato dall’argenteria di Monsignor Bienvenu intorno al 1815. Le parole del vescovo, nell’acme del film, parlano del sangue dei martiri e di salvezza, riecheggiando quelle di Hugo: «Jean Valjean, fratello, non appartenete più al male, ma al bene; io compro la vostra anima; la sottraggo ai pensieri neri e allo spirito di perdizione e la dono a Dio». Saldo nel perdono, il protagonista inizia a ricordarsi della sua umanità. Quella da tempo dimenticata e violentata, ma che il vescovo ha risvegliato. E non è mai una questione pacifica. A partire dalla scena della lotta interiore faccia a faccia con il Santissimo, quando la tentazione prova ancora ad assalirlo: «Mi hanno dato un numero e ucciso Jean Valjean», fino all’affiorare di uno strano pensiero: «Perché ho permesso a quest’uomo di toccare la mia anima e di insegnarmi l’amore? (…) Reclama la mia vita per il Dio supremo. Può essere così?». E il sì detto una volta non basta per sempre. Scenicamente l’indecisione, di cui parla Hugo, nel film si radicalizza sempre più nel bene attraverso monologhi o riprese in cui, l’ex galeotto, dialoga tra sé e l’ambiente circostante. La scelta per il bene non è mai meccanica. Tanto che una delle canzoni più belle s’intitola Who am I?. C’è sempre un momento in cui Valjean deve decidere di ricordarsi chi è veramente. «La sola cosa che il suo contegno e la sua fisionomia rivelassero chiaramente era una strana indecisione, quasi ch’egli esitasse tra i due abissi della perdizione e della salvazione. Sembrava pronto a spaccare quel cranio e a baciare quella mano».

È il film su un miserabile, certo. Ma purificato dall’Amore che «mi ricorda che ho un’anima». Tutto il resto viene di conseguenza e ne è frutto. Buono o cattivo. Perché di mezzo c’è sempre la libertà. Bene è l’amore di Fantine, o quello tra Cosette, adottata da Jean, e Marius; l’amore fino al sacrificio estremo di Eponine, a dispetto degli sciacalli che l’hanno cresciuta. Male è Javert (Russel Crowe), il capitano dell’esercito francese che ha come scopo di vita dare la caccia al prigioniero 24601. Ma anche lui, tolta la maschera della sua finta giustizia e della sua morale puritana e contraddittoria, non è altro che un altro Jean Valjean, prigioniero, a sua volta, di un sistema che gli farà da tomba. La differenza dal vero Valjean? Il declinarsi misterioso della libertà. Interessante che la parola pietà sia quella che più ricorre tra i dialoghi cantati dei due. «Alla fine gli sputerò la mia pietà in faccia».

Si potrebbe andare avanti su tanti temi, ma, il film, conviene vederlo piuttosto che farselo raccontare. Soltanto un ultimo spunto, che riguarda la seconda parte. Quella intorno alle scene delle insurrezioni repubblicane del 1832. La storia insegna che si rivelarono fallimentari. Stesso taglio del film, che punta tutto sul forte idealismo di un gruppo di giovani, sul loro desiderio di libertà appassionato e giusto, eppure irrealistico e che pagheranno duramente. Ma anche qui la grande storia di Valjean, che è una storia di provvidenza, abbraccia tutto, riallargando l’orizzonte inaspettatamente: una sorpresa geniale del finale.

Da vedere, insomma. C'è ancora tempo per farlo. Ne vale la pena anche solo per stare davanti a un'opera che, tralasciando le varie candidature agli Oscar, ha il coraggio di usare certe parole: «Prendi il mio amore, perché l’amore è eterno. E ricorda la verità che una volta fu detta. Amare l’altro è vedere il volto di Dio».

Les Misérables
di Tom Hooper
Con Hugh Jackman, Russell Crowe, Anne Hathaway, Amanda Seyfried