La locandina del film.

Senza un "centro" si vola alla cieca

Due astronauti americani, perso il contatto con la loro base spaziale, cominciano un'odissea per tornare alla Terra. Effetti speciali e 3D, il film di Cuarón è di grande efficacia scenica. Metafora del declino dell'Impero Americano, ma non solo...
Alessandro Banfi

Hollywood coglie spesso lo spirito dei tempi. Non per niente, è la più grande impresa culturale del pianeta. C’è un film, nelle sale italiane in questi giorni, Gravity del messicano Alfonso Cuarón, presentato a Venezia, che non va assolutamente perso per il suo significato ultimo, persino strategico e politico. Intanto perché è un film da vedere al cinema, per via degli effetti speciali, il 3D, gli effetti sonori. Nella versione dvd (nel senso dei nostri pc e televisori) rimarrà ben poco del suo fascino. Ma al di là della potenza estetica della sua realizzazione, quel che ci ha colpito è il tema di fondo.

Gravity racconta una storia di spazio, in particolare l’odissea di due astronauti americani che perdono contatto con la loro base spaziale, lo Shuttle, e che cercheranno di tornare a terra. Nel loro sforzo, la grande Houston, la potente base americana quartier generale dell’impresa spaziale, scompare quasi subito. Il Grande Impero Americano non c’è più e non c’è più laddove aveva vinto la guerra fredda degli anni Sessanta, mettendo la bandiera a stelle e a strisce sulla luna, nella nuova frontiera dello spazio. Uno spazio orbitale dominato dalla bellezza del globo terrestre che costituisce il grande orizzonte del film.

L’organizzazione, la procedura, l’eroismo, la forza americana (incarnate dal personaggio chiave di un altro film sullo spazio che celebrava gli Usa come Apollo 13 che è il capo missione interpretato da Ed Harris) vengono di colpo sostituiti dal vuoto (davvero cosmico) e dal suo impressionante silenzio. La frase chiave del film è la prima che pronunciano i due astronauti americani nelle loro continue comunicazioni: «Houston alla cieca». Il vuoto e il silenzio dominano, mentre manca l’appoggio rassicurante della base americana a terra. Si vola alla cieca nel film di Cuarón. Si vola alla cieca nel mondo di oggi, metafora fortissima di un mondo senza futuro, cui manca un centro di gravità, un’autorità rassicurante, un padre che ti aspetta a casa.

A completare questo quadro, le uniche presenze fisiche rassicuranti, anche se fantasmatiche perché senza presenza umana, sono una Soyuz russa ed una navicella spaziale cinese, la Tiangong 1. Voci e simboli, linguaggi incomprensibili che ci raggiungono: un’icona della tradizione russa, un piccolo Buddha… Civiltà lontane e comunque già sepolte. Lassù nell’orbita terrestre ci sono vuoto nero e detriti, non c’è neanche un cielo azzurro in cui sperare, l’unica speranza anzi viene dalla Terra, ingombrante e struggente bellezza del Gange e del profilo della Sicilia, delle aurore boreali e dei cicloni asiatici…

Le religioni finiscono con le diverse civiltà umane, sembra dire il film. E qui di declino dell’Impero americano stiamo parlando. E tuttavia se un Dio si incarnasse, allora il cielo sarebbe davvero «una vibrazione della Terra», come disse in una sua intervista don Luigi Giussani. Ma a questo il film non arriva, se non si ha la fortuna di averlo incontrato nell’esistenza, resta un desiderio implicito. E potente.