Ermanno Olmi durante le riprese del film.

IL VILLAGGIO DI CARTONE Serve un cristianesimo senza Cristo?

Esce nelle sale l'ultimo film di Ermanno Olmi. La storia di un prete che accantona il crocifisso, ormai «lontano nel tempo», per dedicarsi totalmente agli immigrati nordafricani. Realizzerà il suo desiderio di voler bene?
Maurizio Caverzan

«Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare il bene non serve la fede. Il bene è più della fede». È la frase centrale de Il villaggio di cartone, il nuovo e quasi certamente ultimo film di Ermanno Olmi, che il regista fa pronunciare al vecchio prete, suo alter ego.
Alla prima scena di quello che si propone come un apologo religioso, senza una motivazione esplicita, il grande crocifisso che giganteggia sull’altare di una chiesa viene rimosso da un braccio meccanico e lo stesso avviene per le immagini sacre delle pareti. Dapprima l’anziano sacerdote, quel Michael Lonsdale che abbiamo visto innamorato di Cristo in Uomini di Dio, sembra rammaricarsene. Ma poco alla volta, pur assalito dai dubbi a proposito della sua stessa vocazione, ritroverà coraggio e motivazioni, anche se di natura assai diversa. Ora tra i banchi e presso l’altare si è rifugiato un manipolo di immigrati nordafricani: il battistero è diventato un abbeveratoio e le candele votive servono a scaldare gli ospiti infreddoliti. Così l’edificio sacro, è questa la metafora voluta da Olmi, diventa vera «casa di Dio» perché luogo di accoglienza e di solidarietà degli ultimi. Non vi si celebrano più i sacramenti né vi si annuncia Cristo morto e risorto per la redenzione dell’uomo. Il centro della storia sono gli immigrati. Così, quando una di loro partorisce in sacrestia, Olmi può citare una nuova natività. E quando il gretto sacrestano (Rutger Hauer) rivela ai vigilantes la presenza degli immigrati nella chiesa sconsacrata, il richiamo al tradimento dell’Orto degli ulivi è immediato. In tutta questa simbologia, però, Cristo è scientemente messo da parte. E a un piccolo crocifisso superstite l’anziano prete dice di «non provare pietà» per lui, ma di sentirlo «lontano nel tempo». Però «il bene è più della fede» e, dunque, missione compiuta.
Purtroppo, c’è da temere che la vera missione compiuta de Il villaggio di cartone sia l’affermazione di un grande equivoco. Un cristianesimo senza Cristo non può che ridursi a religione civile, a mistica sociale. Un vago spiritualismo buono per tutte le stagioni che propaga una falsa idea di carità. Ed è pronto per essere applaudito nei programmi di moda della televisione o nei templi della cultura laica. Tutto questo sebbene nelle interviste per la promozione del film, Olmi abbia confidato di sentirsi finalmente «libero da tutte le chiese». Ribadendo, peraltro, che il crocifisso è «un simbolo di cartone» e che «Gesù Cristo è morto duemila anni fa. Oggi bisogna genuflettersi davanti a chi soffre, agli immigrati, ai giovani devastati dalla droga a chi è senza casa». È vero, per fare il bene non serve la fede: anche gli assistenti sociali o le onlus si prefiggono di farlo. Per un cristiano, invece, il bene coincide con la persona di Cristo, «centro del cosmo e della storia». È quella persona «ciò che abbiamo di più caro», il vero «scandalo» del cristianesimo anche per l'uomo del Terzo millennio. A chi le chiedeva le ragioni della sua missione, Teresa di Calcutta ha risposto in modo inequivocabile: «Non sono un’assistente sociale, né una filantropa. Faccio ciò che faccio perché vedo in ogni povero il volto di Cristo».

Il villaggio di cartone
di Ermanno Olmi
con Michael Londsdale, Rutger Hauer, Massimo De Francovich, Alessandro Haber