La locandina del film.

THIS MUST BE THE PLACE Via il trucco, via il mistero

L'ultimo film di Sorrentino è la storia "on the road" di un musicista. La ricerca di un criminale per vendicare suo padre fa da sfondo a una vicenda piena di paradossi e misteri. Alla fine il puzzle si ricompone, lasciando un po' d'amaro in bocca
Emma Neri

Il set che Sorrentino ha allestito nel suo primo film americano, This must be the place, per celebrare le sue icone, ha qualcosa di commovente e irritante insieme. Nel film c’è tutto il meglio della sua e della nostra America, tutte le cose «sognate e mai viste» che Guccini cantava già nel 1973. Come un bambino in un negozio di giocattoli, il regista italiano acclamato per Il divo prende il meglio che c’è nel sogno americano e lo ficca alla rinfusa nella borsa, prima che glielo portino via. A casa, nella sua cameretta, rimette i pezzi in fila e gode nel vedere Sean Penn truccato da Cheyenne, rockstar in disuso e Frances McDormand, musa dei fratelli Coen, che fa la moglie, un vigile del fuoco in gonnella che fuori spegne le fiamme per riaccenderle a casa. Prende la faccia stropicciata e intensa dell’ultraottantenne Harry Dean Stanton, la piazza in uno di quei bar in mezzo al nulla preso direttamente da Paris Texas e, nel caso avessimo dimenticato il geniale “Mente” di 1997 Fuga da New York, ne fa l’inventore delle valigie con le ruote. Mette David Byrne, i Talking Heads e tutta la New Wave davanti allo specchio. E poi disegna le strade americane come le hanno viste i grandi, da Wenders a Lynch, e le dipana in un viaggio dell’anima che non dimentica l’Europa e la sua storia maledetta, l’Olocausto riletto alla luce beffarda de La versione di Barney.
Goffredo Fofi ha scritto che Sorrentino è un megalomane. Sono parole grosse: quegli occhi truccati male che Sean Penn spalanca su una vita a cui si è arreso, quell’andatura passiva da clochard di lusso, trascinata da un centro commerciale all’altro, quell’affidarsi commovente all’energia della moglie, hanno invece qualcosa di irresistibile. Non fosse che la storia deve andare avanti e raccontare che il padre lontano muore e il musicista è costretto ad attraversare un oceano per arrivare, dal rifugio irlandese, in un’America piena di segreti. Ed eccoci all’ultima della convenzioni che il film dipana, un viaggio on the road su un pick up che attraversa il dolore della vita - il disamore paterno, le nefaste conseguenze che la musica da due lire ha prodotto nei fan, l’incapacità a rimettersi in gioco, la vendetta forzata nei confronti del criminale nazista che, mille anni prima, aveva umiliato il padre - fino a che i pezzi del puzzle tornano in ordine.
Sorrentino è un bravo regista, ma non così bravo da tenere sospeso il filo del mistero che attraversa la storia e le vite individuali. Se pensi che una vicenda umana cominci e finisca dentro il rettangolo dell’inquadratura, nonostante la fotografia di Bigazzi e la colonna sonora di David Byrne, ti concentri sulla necessità di far tornare i conti, di riconciliare i paradossi, di chiudere bene. Così respiriamo sollevati, alla fine, quando ritroviamo la faccia bella di Sean Penn al naturale, finite le paure, i tic ossessivi, i manierismi da grande giocoliere. Però, con il trucco, se ne va anche il mistero: alla fine, sempre di un film italiano, si tratta. E non è un complimento.

This must be the place
di Paolo Sorrentino

con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten