Padre Amédée e padre Luc, fra i protagonisti del film.

UOMINI DI DIO Quel bacio di padre Luc

Luca Fiore

L’obiettivo spazia sul panorama brullo dell’Atlante algerino. Due uomini stanno riparando un muricciolo di pietra, sul pendio di una collina. Uno è un ragazzo musulmano, l’altro è un giovane monaco. Quest’ultimo si ferma a guardare verso l’orizzonte. L’altro se ne accorge: «Padre, che cosa fa? Si è incantato?».
Il primo motivo per cui Uomini di Dio (Des hommes et des dieux), del regista francese Xavier Beauvois, è straordinario è che in questo film l’esperienza cristiana assume una forma cinematografica credibile. Se oggi noi siamo cristiani è perché un giorno della nostra vita abbiamo incontrato qualcuno che ci ha testimoniato in modo credibile la convenienza umana della fede. E questa persuasività è una ragionevolezza che non si esaurisce nella coerenza di un discorso: è una sovrabbondanza di umanità che ha fatto breccia in noi.
Ma questo tipo di persuasività è un aspetto quasi del tutto assente nei tentativi di trasporre al cinema personalità cristiane significative. Anche in quelli più riusciti, il più delle volte l’esperienza cristiana in quanto tale - e in particolare la vocazione religiosa - o assume le fattezze della macchietta o possiede un ultimo residuo di stramberia. Questo nell’opera di Beauvois non accade mai.
Il film narra la storia vera dei monaci del monastero di Nostra Signora dell'Atlante a Tibhirine, in Algeria, che nel 1996 furono uccisi in circostanze ancora misteriose. La vicenda è stata ricostruita dalle testimonianze dei due monaci sopravvissuti e dai diari lasciati dagli altri, ripercorrendo la storia dal momento in cui la comunità si rende conto di essere obiettivo dei fondamentalisti islamici. Ciascun monaco dovrà trovare le ragioni per restare o abbandonare il monastero.
È difficile individuare gli ingredienti dell’alchimia con la quale il registra è riuscito ad ottenere questo risultato. Tuttavia quello decisivo è il talento degli attori. Tanto quanto i brevi dialoghi, asciutti ed efficacissimi, valgono i primi piani su cui il regista indugia in un crescendo che arriva alla grande scena dell'"ultima cena", quando i monaci vengono ritratti in tutta la loro commovente umanità. Sullo schermo appaiono uomini veri, di una autenticità straordinaria. C’è l’abate, intellettuale e ascetico, c’è il giovane energico e tormentato, c’è quello che ha una paura da morire e quello che invece paura non ne ha. C 'è il vecchio che si salva nascondendosi sotto il letto, e quello che ammette che in Francia non c’è nessuno ad aspettarlo. Senza questo lavoro sullo spessore umano dei personaggi, il film rimarrebbe nella schiera dei mille film cristiani ai quali abbiamo sempre preferito quei grandi film che cristiani non sono.
Il secondo motivo per cui questo film resterà come una pietra miliare nella storia del cinema - non solo religioso - è che mostra quanto l’esperienza cristiana - e la vocazione alla verginità in particolare - sia un’esperienza di compimento affettivo. Il film, infatti, mostra chiaramente come l’unica ragione che ha spinto ciascun monaco a non sottrarsi alla propria vocazione - fino all’ultimo non avranno la certezza che la chiamata sia davvero al martirio - è l’affezione alla persona di Cristo. Il rapporto personale con Cristo presente non toglie la paura, ma sostiene ciascuno e cementa l’unità e l’amicizia nella comunità monastica.
Che il tema centrale sia l’affettività lo si capisce sin dal primo dialogo: quello tra padre Luc - il ruvido monaco medico, vero protagonista del film - e una ragazza musulmana. «Padre, come si fa ad accorgersi che si è innamorati?». «Cara, è una cosa che si capisce». «Tu sei mai stato innamorato?». «Sì, diverse volte. È una cosa che ci si ricorda per tutta la vita». Da qui parte una parabola che arriva a uno dei momenti culmine della vicenda: quando padre Luc, nel segreto della propria cella, si avvicina alla riproduzione della flagellazione di Cristo di Caravaggio e la bacia. Nell’intensità di quel bacio c’è tutta la ragionevolezza, non solo della fede, ma anche del sacrificio. Fino al martirio. Come nell’istante in cui l’elicottero dell’esercito si avvicina minaccioso alla chiesa del monastero. I monaci interrompono la preghiera nel coro e si stringono in un abbraccio che rende in tutta la sua drammaticità la grandezza della loro amicizia.
In fondo, che la storia sia ambientata in un’Algeria nel bel mezzo della guerra civile tra governo corrotto e fondamentalisti islamici, risulterebbe quasi secondario se la vicenda non fosse realmente accaduta. Il fatto che questo amore per Cristo si giochi nella vocazione a restare - a costo della vita - vicino alla popolazione del villaggio musulmano, mostra che non c’è circostanza a cui, dentro questo rapporto, ci si può sottrarre senza ritrovarsi meno uomini, meno lieti. Il regista è riuscito a mettere il dito nella questione decisiva: la contemporaneità di Cristo oggi.