TERMINATOR SALVATION Dietro a esplosioni e battaglie, una simbologia cristiana

Laura Cotta Ramosino

Quarto episodio di una delle saghe più conosciute e citate del cinema americano, Terminator Salvation si propone come una specie di rifondazione del franchise capace di non deludere fan e spettatori occasionali grazie a trama e personaggi solidi, anche se essenziali, e un impatto visivo davvero spettacolare.
In questo nuovo episodio, basta viaggi nel tempo (ma i paradossi temporali che ne derivano e che sono uno dei marchi di fabbrica della saga restano), non più il “nostro” mondo invaso da un singolo cyborg letale e inarrestabile, ma un “altro mondo”, un futuro apocalittico (ma nemmeno troppo lontano, è il 2018!) post catastrofe nucleare, dove i pochi uomini rimasti sono costretti a nascondersi e a combattere una guerra del tutto impari contro l’impero delle macchine, che continua a evolversi e mira al controllo totale del mondo. Un mondo dove John Connor ha raggiunto l’età adulta, ma non è ancora divenuto il capo carismatico promesso fin dal primo capitolo; anzi, è in preda a ossessioni e incertezze.
Ai critici americani, che ci hanno visto solo l’ennesima pellicola di effetti speciali, il film non è piaciuto molto, eppure i creatori del nuovo Terminator, pur restando fedeli all’impostazione fanta-action della storia, dimostrano di intendersene di simbologia cristiana più del Robert Langdon di Angeli e demoni, e accumulano, senza appesantire la storia, riferimenti e sottotesti dal sapore biblico e vagamente cristologico che contribuiscono a dare alla storia un suo spessore epico e che non potranno sfuggire allo spettatore disposto a cercare un significato sotto la polvere delle esplosioni e delle battaglie.
Fin dal primo film John Connor, del resto, era presentato come una figura messianica, a partire dalla sua concepimento straordinario, al suo inseguimento da parte di un Erode meccanico prima e dopo la nascita.
In questo nuovo capitolo John, ormai adulto, ci viene invece presentato come un profeta, per quanto contestato, una «voce che grida nel deserto» (il suo nome fa suonare qualche campanello), forte della conoscenza del futuro che sua madre gli ha lasciato in 28 preziose registrazioni che riascolta incessantemente alla ricerca della chiave per salvare il genere umano.
John è nello stesso tempo un segno e un motivo di speranza, il leader per la cui sopravvivenza tutti sono pronti a dare la vita. Insomma, la storia ripropone, su un campo nuovo e problematico l’infinito confronto tra destino e libero arbitrio, che da sempre la caratterizza.
Non mancano i riferimenti alla guerra del Vietnam e ai campi di concentramento, cui somigliano tanto le gabbie dove le macchine racchiudono gli umani catturati. Anche qui il comandamento principe è «restare vivi», che, nella prospettiva della pellicola, non è una pura esortazione alla sopravvivenza biologica, ma un invito a mantenere fino in fondo la propria identità umana, con tutto quello che questo comporta.
Certamente quello del sacrificio, della capacità di offrire la propria vita per la vita di un altro, non per un calcolo statistico, ma per quel moto del cuore che si chiama amore, come segno distintivo dell’essere uomini, è uno dei temi fondamentali della vicenda, che trova la sua più completa espressione nella figura di Marcus Wright, la vera novità del film.
Ambiguo salvatore, Marcus “risorge” dalla morte, ma (ri)troverà se stesso solo nella dimensione del totale sacrificio di sé. Quella a cui viene riportato è una forma di vita intermedia (metà uomo e metà macchina, sia pure senza la coscienza di esserlo), destinata a generare il sospetto e la repulsione da parte dei “veri” umani.
In questo stato Marcus non può fare a meno di interrogarsi sulla sua identità, di chiedersi se quel cuore che gli batte così forte nel petto basti a renderlo umano o non sia piuttosto la capacità di libera scelta, di sacrificio gratuito, che rimane sua fino alla fine a renderlo tale.
La sua umanità, comunque, non è data, ma viene attivata da una serie di incontri (il giovane Reese, la piccola Hope, una donna pilota, e lo stesso John) che rendono finalmente reale la seconda possibilità, l’occasione di riscatto postumo che illusoriamente gli era stata prospettata nel braccio della morte con la donazione del suo corpo alla scienza. Non è un caso che a questa donazione ambigua iniziale ne corrisponda una libera e cosciente nel finale, che è il suggello dell’umanità pienamente ritrovata di Marcus.
Il film rispetta con puntiglio gli appuntamenti dovuti ai fan (tra cui le frasi ormai celebri, come il topico «I’ll be back»), rimane nella sostanza di fantascienza e mantiene quel che promette in termini di spettacolarità e di azione, ben supportato dal cast.
Come in ogni saga molte questioni rimangono aperte e la disinvoltura con cui la storia sorvola sulla bella moglie incinta di John e su tutta un’altra serie di particolari, lascia prevedere qualche sequel, sempre che il pubblico gradisca.

Terminator Salvation
di McG, con Christian Bale, Sam Worthington, Anton Yelchin, Moon Bloodgood, Bryce Dallas Howard e Helena Bonham Carter