La locandina del film.

THE TREE OF LIFE «Dov'eri tu quando ponevo le fondamenta della terra?»

Capolavoro o noia mortale? La critica si è divisa di fronte al film di Malick. Per noi l'ha visto non un critico cinematografico ma uno studioso di letteratura. Che lo definisce «un grande passo artistico dei nostri tempi»
Edoardo Rialti

La prima premessa è che chi scrive non conosce ambizioni da critico cinematografico, sebbene la mia serata ideale sia sempre godermi qualche storia vera e avvincente, che sia narrata attraverso le pagine di un libro o lo schermo di un film; la seconda è che fra le tante pellicole viste la mia naturale inclinazione, nonostante l’amore per i preferiti Olmi, Lynch, Branagh, Kurosawa, tende di solito a prediligere le buone vecchie avventure “alla occidentale” (spionaggio, polizieschi, storici), e che i film cerebrali e quelli cosiddetti “intellettuali” assumono ai miei occhi la stessa attrattiva di un paio d’ore di canottaggio forzato, e sotto la pioggia. No grazie.
Non sapevo bene cosa aspettarmi dal film The Tree of Life di Malick, e a leggere certe recensioni avrei trovato di che fuggire, ma i pareri e le reazioni così discordi (capolavoro, noia mortale, film con domande interessanti e riposte parziali, film panteista, film protestante…) tra chi me ne aveva parlato non avevano che ulteriormente accresciuto una forte e benevola curiosità. Certo, le sue altre opere, ed in particolare La sottile linea rossa e ancor più The New World mi avevano sorpreso, colpito ed interrogato, ed il nuovo trailer lasciava presagire qualcosa di molto interessante, ma francamente nulla di tutti questi dati previi avrebbe retto al confronto con ciò cui avrei assistito.
Il primo pensiero a fine proiezione, alzandomi in silenzio in una sala altrettanto azzittita, è stata semplicemente dirmi: «Non credevo nemmeno potessero essere fatti film così», e al tempo stesso già ritornare alle immagini, ai dettagli, riconoscendovi così tanto di vissuto e conosciuto: credo sia questo uno dei tratti distintivi e basilari di tutte le opere d’arte: sono tanto nuove ed inaspettate - un mondo tutto nuovo, un nuovo linguaggio talvolta - quanto capaci di gettare luce su quello che era già presente e vero, e che improvvisamente si riaccende, come messo a fuoco e riscoperto: è proprio vero che la grande arte, come sottolineava Flannery O’Connor, tanto più è “locale”, espressa in un contesto, una storia, un linguaggio, così come è questa famiglia del Texas, quanto più risulta autenticamente universale, capace di evocare quella serie di infiniti e spesso indicibili sfumature che costruiscono il nostro cammino di uomini sulla terra, i giochi da bambini con la luce sul soffitto, la scoperta del mondo, le corse da ragazzi per i campi o a tuffarsi nei fiumi, quasi a tener testa all’energia che ci brucia dentro e ci fa crescere; eppoi anche la paura, e il dolore, la contraddizione, la scoperta del male dentro e fuori di sé, il primo amore e la sessualità (col realismo e l’attenzione dei primi libri delle Confessioni di sant’Agostino e la dolcezza evocativa di Steinbeck o Wendell Berry), il rapporto con la famiglia in cui veniamo al mondo, la seduzione della violenza. Come Malick riesca a realizzare tutto ciò in un’unica sinfonia di immagini, musica e parole, come egli riesca a presentare un intero mondo interiore con la semplice ripresa di un padre che percorre, ripreso di spalle, tutto un intricato mondo di pontili d’acciaio con la sicura andatura di un soldato o un re conquistatore, per poi tornare a casa curvo e stanco, non può essere adeguatamente descritto. Va semplicemente visto.
Tutto ciò avrebbe potuto costituire solo una serie di tasselli magnifici e scomposti, o magari un grande affresco d’umanità, ma Malick li dispone in una storia che li ripercorre cogliendovi un segreto, inesausto dialogo con Chi suscita la danza delle galassie e dei mari, Chi tocca il cuore con la bellezza, la maestosità e la delicatezza, eppure pare spesso strappare via proprio ciò che abbiamo di più caro, proprio come nel libro di Giobbe che apre il film. E per chi scrive le scene più belle sono appunto quelle della vita quotidiana di Sean Penn, che come l’Eliot de Gli uomini vuoti o il Dante nel mezzo di una vita affermata, ma di cui non ritrova più il senso, prigioniero di un mondo gelido che non è altro che la gigantesca proiezione della sua stessa anima confusa, si arresta e ripercorre la propria storia interrogato e guidato fino a «bussare alla Tua porta» dalla fede di sua madre e dalla semplice presenza di suo fratello, protagonista di un gesto di perdono che, proprio come in The New World, imperniato invece sulla natura dell’amore e della fedeltà tra un uomo e una donna, è il punto verso cui converge tutta la narrazione. È esso a ridonare quanto sembrerebbe perduto per sempre e a mettere a fuoco i rapporti e le persone nell’unico orizzonte che conti per davvero, riscoprendo chi ci era già accanto, come un padre pieno di difetti, segrete incertezze ma anche tenerezza e sincero desiderio d’amore. Un perdono che mendicato ed elargito permette di tornare a guardare tutto in modo nuovo, riascoltandovi Quella Voce che la dimenticanza, i limiti ed il male parevano aver allontanato. Quello che poi si palesa sulla spiaggia dell’eternità non è qualcosa che ci aspetta fuori e dopo il tempo, ma la profondità del tempo stesso, tanto che, proprio come Dante ed Eliot, è possibile compiere questo “altro viaggio” in qualsiasi momento e luogo, e, come Sean Penn tornare a sorridere in mezzo ai grattacieli e alle strade, in un mondo che torna a palesarsi per ponte che è sempre stato, perché, come ha recentemente ricordato Benedetto XVI, «l’uomo porta in sé una sete di infinito, una nostalgia di eternità, una ricerca di bellezza, un desiderio di amore, un bisogno di luce e di verità, che lo spingono verso l’Assoluto; l’uomo porta in sé il desiderio di Dio. E l’uomo sa, in qualche modo, di potersi rivolgere a Dio, sa di poterlo pregare». Assistere a quest’opera vuol dire potersi esporre al lavoro che essa è capace di esercitare su di noi; e la mia immaginazione ed i miei pensieri continuano a tornare alle scene del film di Malick, attingendovi niente meno che questo. A questo inesausto “qualche modo” del nostro dialogo con Dio, del nostro bisogno di perdono, verità ed eternità Malick dà espressione poetica con una forza ed una lirica bellezza che sono un conforto ed una sorpresa. A mio giudizio un grande passo artistico dei nostri tempi e non solo.

The Tree of Life
di Terrence Malick
con Brad Pitt, Sean Penn, Joanna Going, Fiona Shaw