Il cortile dell'Università Cattolica di Milano.

«Nulla è nostro, eppure tutto è dato»

Il 20 gennaio, a Charsadda (Pakistan), più di venti studenti sono stati uccisi in un attentato. Ecco il contributo scritto da uno studente di Lettere, che è stato appeso sui muri dell'Università Cattolica di Milano

Negli ultimi giorni ha avuto luogo un numero spaventoso di attentati terroristici in tutto il mondo. Ouagadougou in Burkina Faso, Istanbul, Giacarta, Hurghada in Egitto, Kabul; e potrei elencarne altri. Ogni sera, al telegiornale, la notizia di una strage. Al punto che è nata in me una specie di assuefazione, quasi una tristissima abitudine: la routine del massacro, gli assassinii quotidiani, qualcosa a cui, giorno dopo giorno dare sempre meno peso.

Esiste qualcosa di peggio che provare rabbia o dolore: non provare niente. Rubando l'espressione ad Hannah Arendt, potremmo parlare di banalità del male. Credo che per il male sia la più grande vittoria, vederci davanti al Tg a sentire «Nuovo attentato...» e a pensare: «Non è il primo, non sarà l'ultimo, e, tutto sommato, speriamo che non capiti in Italia».

Eppure ho scoperto che c'è qualcosa che rompe l'indifferenza nella quale possiamo indugiare perfino davanti a fatti così orribili, ed è la commozione. Lo dico perché quando ho saputo dell'attentato all'università di Charsadda in Pakistan, il 20 gennaio, stavo per sostenere un esame. Me ne stavo seduto paziente e nervoso ad aspettare il mio turno, e nello stesso momento altri studenti venivano presi a fucilate. Ne sono morti più di venti. Mi è tornato in mente il massacro al campus di Garissa in Kenya, nell'aprile scorso: centocinquanta studenti uccisi.

Mi sono chiesto: che valore ha l'esame che sto per fare? Che valore ho io? Che valore ha la mia vita? Perché mi potrebbero strappare tutto questo adesso, facendo irruzione dalla porta. Per un attimo ho realizzato che il tempo è davvero un dono: non sai quanto ne è stato preparato per te, ed è troppo bello per buttarlo via. Sì, la vita è appesa a un filo, oggi più che mai; e che bisogno ho io che questo filo non stia tenendo su una marionetta, ma qualcosa di unico, che vale la pena che ci sia.

Mi sono anche chiesto perché uno debba morire ammazzato alla mia età. Questo non lo so ed il buon Dio me lo spiegherà un giorno. Ma tutto in me, guardando quei cadaveri, si ribella all'idea che si possa nascere e morire senza una ragione. E mi chiedo allora quale sia, e ho l'università per cominciare a chiedere, perché è qui che ora sono chiamato a stare.

Se c'è una cosa che ti libera, anche violentemente, dall'apatia, quella è la commozione. Che nasce spontanea, non chiede il permesso e magari dura tre secondi, però c'è, e c'è stata, e non puoi negarlo, è più forte di te. È solo un punto di inizio, ma da lei si può cominciare a costruire. Perché non è commovente solo la morte degli altri. Anzi, a volte abbiamo un cuore così duro che non ci tocca nemmeno. È commovente la mia vita, quello che faccio, quello che sbaglio, quello che sono. Per il semplice fatto che ci sono, e questo non è ovvio. Esiste una tenerezza grazie a cui studiare un esame, parlare con un amico e amare una ragazza diventano esperienze nuove, colme di gratitudine perché tutte queste cose sono date: la vita è un ricevere continuo, ed è questa coscienza ad abbattere ogni indifferenza. Mi ritorna in mente una frase di don Giussani: «Fai come se tutto dipendesse da te, sapendo che nulla dipende da te». La libertà vera è riconoscere che nulla è nostro, nemmeno noi ci apparteniamo; eppure tutto ci è dato e ci interroga. La libertà comincia con lo stupore: e questa vita libera è vita, a tal punto che non teme di essere recisa.

Carlo, Milano