Papa Francesco al Kasarani Stadium.

«Il mio incontro con il Papa, tra i giovani del Kenya»

Alcuni si sono svegliati alle quattro solo per arrivare in tempo allo stadio Kasarani. Altri sono lì dalle 8.30. Sono gli undicimila giovani di Nairobi che attendono Francesco, «padre e insieme amico». Il racconto di Daisy

Mi giro nel mio sedile blu al Kasarani Stadium e, scherzando, dico a don Gabriele, che siede dietro di me, che non ho mai aspettato tanto qualcuno in tutta la mia vita! Nel settore dello stadio in cui sono seduta, da ogni parte, in mezzo a qualche straniero, ci sono molti miei amici di Comunione e Liberazione, fra i quali sacerdoti, suore, famiglie, studenti del Clu e delle scuole St. Kizito e Otunga.

Tutto intorno a noi, in ogni angolo dello stadio, migliaia di giovani e altri fedeli (quasi quarantamila) in attesa di papa Francesco. Siamo lì dalle 8.30, lo stadio era già mezzo pieno a quell’ora e molti altri stavano cercando di entrare. La folla è entusiasta ed eccitata, anche perché quello che sta per accadere è un evento assolutamente nuovo: il gruppo dei Vescovi presenti, africani ed europei, si alza e balla mentre scorrono le immagini. Lo stesso fanno il presidente Uhuru Kenyatta e sua moglie, Lady Margaret: insieme guidano una danza tradizionale Kikuyu chiamata Mugithi. Il canto dice più o meno: «Tu che vedi che papa Francesco è qui, sappi che questo è un gran giorno». È il suo incontro con noi, i giovani del Kenya, e quando lui finalmente arriva, anche se ha quasi un’ora di ritardo, è accolto con grandi sorrisi e acclamazioni della folla, in pieno stile "stadio di calcio".

Quello che, di fatto, ha catturato la mia attenzione è stato il modo puntuale con cui il Papa ha risposto alle domande che gli sono state poste da due studenti, Linet e Manuel. Alcune delle domande poste erano del tipo: «Perché accadono tragedie nella nostra vita? Come possiamo affrontare il problema della corruzione dilagante e del tribalismo nel nostro paese? Che cosa porta i giovani ad aderire ai gruppi terroristici, e che cosa si può fare per salvarli? E che cosa si può fare per quanti si sentono non amati ed emarginati dalla società? Come possiamo noi cristiani usare i social media in modo utile, nonostante le tendenze mondane della nostra società?».

Ero entusiasta, e con me molti altri nello stadio, di questo dialogo fra il Papa e noi, perché questi sono problemi che riguardano direttamente noi giovani africani che viviamo in un Paese del terzo mondo in via di sviluppo. Solo in quest’ultimo anno, ci sono stati gravissimi casi di corruzione nei ministeri più importanti del Governo: come l'acquisto del Ministero dello sviluppo di comunissime penne biro per quasi 9mila scellini kenioti (90 euro). Si sono anche alzati i toni tra Governo e alcune tribù accusate, anche dall’opposizione, di scatenare continue rivalità. In aprile c’è stato un attacco terroristico che ha provocato la morte di 147 studenti all'Università di Garissa, il più grave tra gli attentati che fino ad allora avevano colpito autobus e centri commerciali. A volte sembra che nel paese, come in tutta l’Africa, si rimbalzi da un problema a un altro. Questa è stata la ragione del mio interesse: avevo bisogno di qualcosa di più profondo di un giudizio politico. E poi ero curiosa: volevo verificare se il Papa, che vive così lontano da noi, comprende quello che viviamo.

Il dialogo ha catturato tutti, e non mi sono resa conto che era passata un’ora e mezza. Lo stadio era in silenzio; un silenzio rotto solo dagli applausi, scoppiati quando si è parlato di corruzione. «La corruzione è come lo zucchero», ha detto il Papa: «È dolce, ci piace, è facile… e poi? Facciamo una brutta fine! Con tanto zucchero facile, finiamo diabetici e anche il nostro Paese diventa diabetico!». Ha poi concluso in spagnolo: «La corruzione non è un cammino di vita: è un cammino di morte!». Sono rimasta stupita, e lo sono ancora, davanti al suo modo paterno di rivolgersi a noi su temi così delicati; non ha condannato, ma con grande umiltà e misericordia (al punto di ammettere che ci sono casi di corruzione anche in Vaticano) ci ha ricentrati su cosa sia il male.

Per rispondere a come possiamo stare di fronte a tragedie come gli attacchi terroristici, la radicalizzazione e le lotte tribali, ci ha proposto di essere attenti a coloro che ci circondano. In sintesi, amare gli altri per imparare sempre ad amarli, a difendere la famiglia e a pregare sempre, anche quando non comprendiamo le tragedie che ci toccano, ricordando la nostra speranza nella Resurrezione. Per dirlo con le sue parole: «Il primo mezzo di comunicazione è la parola, è il gesto, è il sorriso. Il primo gesto di comunicazione è la vicinanza. Se voi parlate bene tra di voi, sarete capaci di accogliervi, anche se appartenete a tribù differenti». Infine, ci ha incoraggiati a investire sia nell’educazione sia nel lavoro, come singoli e come società, per evitare di cadere nella tentazione della droga, del radicalismo e della corruzione.

È un uomo garbato ma fermo, è padre e insieme amico. A mezzogiorno ha guardato l’orologio e ci ha chiesto se avevamo fame. La folla ha risposto con entusiasmo: «No». E lui ha continuato a parlare con noi. Alla fine, ha benedetto gli alberi che saranno piantati dai ragazzi, in linea con la sua enciclica Laudato si’. Ma prima di finire, ci ha confidato un segreto personale: tiene sempre in tasca il Rosario e la Via Crucis, per ricordarsi che la sua speranza è posta in un Altro, e prega ogni volta che può.

Torniamo a casa, stanchi ma contenti. Stanchi perché ci siamo alzati presto, qualcuno alle quattro del mattino, per arrivare in tempo. Contenti perché abbiamo trovato parole nuove, che il Papa ci ha detto.

Il giorno dopo, a caritativa, Stephen, un ragazzo protestante che sta con noi, mi ha detto: «Anche se non sono cattolico, mi sento in sintonia con quello che il Papa ha detto. È stato chiaro, su tutto quello che ha detto riguarda me e la nostra situazione come cristiani e kenyoti». Gli ho chiesto se gli è parso in qualche modo di aver perso qualcosa per essere venuto con noi cattolici (qui, fra i protestanti, c’è del pregiudizio verso i cattolici), e mi ha risposto: «No, è stato un giorno speso bene». Gli ho sorriso: anche per me è stato un giorno speso bene.

Daisy, Nairobi