Quel profumo della «caritativa fatta a me»

La consegna del pacco alimentare a una signora in difficoltà «che ci stava desiderando». Tra l'aroma del caffè nella piccola casa e la dignità di quella donna, la riscoperta del significato di quel gesto. Ecco il racconto di Monica

Era un po' che non facevo un gesto di caritativa. Non ne sentivo nemmeno la mancanza, in verità. In questo periodo dell'anno in cui un'insegnante come me deve portare a compimento tante cose, aggiungere un altro impegno non mi attirava e non ne sentivo l'esigenza. Ma si sono incrociati, non certo per caso, due fatti.

Alla messa quotidiana del mattino, qualche volta si aggiunge anche mio marito, impegni permettendo. E c'è sempre anche il nostro responsabile del Banco alimentare Alla fine di una celebrazione ci invita a una cena del Banco, alla quale, però, non possiamo andare perché già impegnati. E tutto apparentemente finisce lì.

Dopo qualche giorno mio marito, pediatra, torna a casa e mi racconta di una visita particolare che ha fatto nel suo ambulatorio. Una signora, con una bambina di circa nove mesi, alla fine della visita di controllo si confida dicendo che il marito è in carcere e che lei, non lavorando, è in gravi difficoltà economiche. Ci viene in mente il Banco. Alla messa del giorno dopo chiediamo aiuto e dopo qualche giorno riusciamo a portarle il pacco a casa.

Ecco, tutto potrebbe sembrare semplice e facile. Individuo un bisogno, trovo una soluzione, risolvo. Non è così, in realtà.

La signora ci vede arrivare dalla finestra. Ci stava aspettando. Anzi, ci stava desiderando. Da quanto tempo qualcuno non mi desiderava così?

Attraversiamo la strada ed entriamo. La sua casa è un corridoio lungo, con in fondo la cucina. Certo ci sarà sicuramente almeno il bagno e una camera ma l’immagine che mi rimane negli occhi è che questa casa è un corridoio. Lei è vestita un po' malamente, braghe del pigiama e maglietta con lustrini, ciabatte e capelli scomposti. Con lei c'è una giovane donna con una bambina, e scopriamo che è la compagna del figlio. Quindi la piccola è sua nipote.

Abbiamo la scatola e la cassetta della frutta in mano che poggiamo sul tavolo e per terra. Restiamo lì un attimo, un po' in imbarazzo, non sappiamo bene cosa dire, mentre la bimba s'intrufola curiosa tra le gambe della nonna per guardarmi. Provo a farle qualche coccola, ma lei scappa via e si rifugia dalla mamma.

Nella cucina ci si muove appena. Un tavolo con la cerata, le sedie e i pensili opprimono uno spazio già piccolo. Il resto è corridoio. Ma io incrocio lo sguardo della signora che mi dice: «Ma io lei l'ho già vista da qualche parte». E io: «Può darsi, sono sempre in giro». Poche parole e senza grande significato, ma rompono il ghiaccio.

La signora insiste per offrire il caffè che io, spiego, non posso bere per la caffeina a ora tarda. Accetto volentieri un bicchierone d'acqua fresca. La mia sedia è a metà tra la soglia della cucina e il corridoio, perchè tutta dentro non ci sta.

Viene preparata la caffettiera. Da quanto non bevo il caffè della caffettiera! Ormai solo la mia mamma non ha la macchinetta dell'espresso. La signora controlla la fiamma e l'uscita del liquido. Al primo borbottio alza il fuoco e poi spegne. Gesti fluidi, abituali, che non ha bisogno di controllare. Apre il frigo che è lì accanto a me. Sbircio dentro. Oltre alle bottiglie di acqua poco altro: latte, mezza mela, una pentolina con il coperchio, un incarto da salumi. La signora chiude subito e apre per me la bottiglia di acqua ancora sigillata. Un gesto di gentilezza e di raffinatezza. All'ospite gradito o di riguardo si apre la bottiglia nuova. Lo si faceva anche a casa mia. Io non lo faccio più.

Il profumo del caffè lasciato a riposare ha invaso tutto il corridoio. La signora apre uno stipetto e prende dei bicchieri grandi di carta. Mi versa un bicchiere di acqua fresca. Chiede a mio marito se il caffè lo vuole zuccherato e versa lo zucchero direttamente nella caffettiera, mescolando con il manico di un cucchiaio da cucina. Un gesto che ha sapienza antica. Mescolando lo zucchero amalgama anche il caffè e il suo aroma. Prende un bicchierino, sempre di carta, ma più piccolo e versa il caffè.

Io guardo ogni suo gesto. È una donna dignitosa e fiera. Nelle parole che ormai si susseguono non c'è rabbia, recriminazione, delusione. Parla del marito in carcere. Stanno aspettando una sentenza che dovrebbe permettergli di lavorare all'esterno, con un piccolo impiego che potrebbe essere un nuovo inizio per la famiglia. Poche parole, con mio marito. Io sono lì che ascolto affascinata.

Il corridoio a casa mia è un pezzo di pavimento che serve per distribuire i passi, per portarti nella stanza dove tu vuoi andare. Per questa donna è la sua casa. Nel suo corridoio c'è il divano, che forse diventa anche un letto, adesso c'è anche il profumo del caffè e l'eco delle nostre parole, semplici ma non inutili.

Sta per piovere e dalla finestra socchiusa si accavallano le nuvole sempre più scure. Mio marito ha un altro impegno e bisogna andare via. Ci alziamo per salutare. La donna saluta, tende una mano che io stringo volentieri ricambiando. Si incrociano gli occhi e non vedo tracce di fastidioso ossequio, sdolcinato o affettato. La mano mi restituisce una presa salda. Come la mia. Usciamo ripercorrendo a ritroso il corridoio che con le nuvole, adesso, è anche più buio. La signora ci saluta di nuovo sulla porta e noi siamo fuori.

Non c'è più il profumo del caffè e l'aria è quasi frizzante. Mi rimane il profumo della dignità di quella donna e il riacquistato significato della caritativa. La caritativa fatta a me.

Monica, Chioggia (VE)