Padre Emmanuel Braghini.

«Emmanuel, un vero padre»

Davanti alla morte dell'amico frate, Loretta racconta l'incontro con lui. Dagli anni Ottanta in Cattolica fino all'ultimo compleanno. E quell'ennesimo: «Resisti nella fede!»...

Ho pensato tante volte di scrivere a Tracce ma poi mi sembrava di non avere mai novità rilevanti da dire e rimandavo.
Poi stamattina, mentre ero in ufficio, ho aperto la mail e cliccando su Tracce.it non ho potuto non fermarmi a leggere gli articoli su padre Emmanuel e sono stata così grata a questo strumento che è stato una ripresa della memoria immediata. Per me padre Emmanuel è stato un vero padre. Ho pianto tanto quando ho saputo la notizia e stamattina ero già sommersa dalle cose da fare. Así es, dicono qui, siamo fatti così, ma grazie a Dio non mancano i segni che ci fanno riprendere e per me è stato leggere quei due articoli. Poi ho pensato: anch'io voglio dire qualcosa del mio padrino, che sia pubblicato o no, non importa, serve a me per fissare quello che ho imparato con lui, per non darlo per scontato.

Io l'ho conosciuto negli anni Ottanta in Cattolica a Milano. Andavo alle sue messe il lunedì alle 12.30 e mi piaceva tanto questo prete così umano e letteralmente di fuoco. Poi, un giorno, invitata dalla mia amica Ema, ho cominciato a frequentare il suo studio dopo la messa: c'erano tanti studenti. Ma non ci trovavamo per fare discorsi, non aveva prediche in più da farci, semplicemente mangiavamo insieme. Il suo studio era attrezzatissimo. Aprivi un armadio e c'era il lavandino, il fornello per fare il caffé, tazze, cucchiaini, insomma tutto il necessario per mangiare in compagnia. A turni facevamo la spesa e condividevamo ridendo e scherzando quel momento. A lui piaceva ricordare che Gesù a Emmaus si era rivelato dum pascitur (mentre si mangiava) ed era proprio così, la stessa familiarità. Poi alle 14.15 in punto ci mandava via tutti perchè era il momento del Gius: prima di far lezione al pomeriggio il Gius arrivava per confessarsi, tutte le settimane. Noi lo sapevamo e aspettavamo fuori per poi andare alle sue lezioni. A volte si fermava nello studio con noi e allora gli offrivamo "il papillarius giussanianum" (um perchè è neutro. Al latino ci teneva molto), un'ottima grappa trentina che la Ema portava dalla Val Sugana e che il padre aveva battezzato così.

In verità all'inizio Emmanuel mi faceva soggezione: io sono un po' timida e quell'uomo così forte e, diciamolo, un po' brontolone, mi faceva stare a distanza. Ma poi la familiarità è cresciuta, è nata una confidenza e un affetto che sono rimasti per sempre. Dietro quella scorza dura - chi ha provato a entrarci lo sa - c'era davvero un padre di una tenerezza smisurata vestita da burbero. Non potrò mai dimenticare quel giorno in cui - aveva appena ricevuto lo stipendio - staccò l'assegno e me lo diede dicendo: «Per pagare le tasse dell'università». Io rimasi di stucco e tentai di rifiutare, ma fu impossibile. Pochi giorni prima gli avevo raccontato che la mia famiglia faceva dei sacrifici per farmi studiare e io stavo molto attenta a spendere i soldi.

Era impossibile fare discorsi con lui. La vita era assolutamente pratica, concreta: c'era da andare in via Kramer a fare un po' di segreteria, bisognava aprire al tale che veniva, preparare al volo un caffè o addirittura un pranzo per qualche diaconia o incontro del movimento. Naturalmente si poteva studiare con gli amici lì, e ai più intimi chiedeva a volte di accompagnarlo a Edolo, dove con una sapienza da ingegnere-architetto-muratore aveva trasformato delle vecchie baracche dell'Enel in uno splendido villaggio pulito, ordinato e bello, a disposizione di famiglie e giovani che ci hanno fatto le vacanze per anni. Io ero una di loro e ricordo come quelle vacanze mi hanno "costruita", soprattutto spalancandomi alla dimensione della bellezza e della carità perchè li non c'era una pietra fuori posto e, anche quando ci sembrava una mania tutto quell'ordine, scoprivamo che obbediva a qualcosa di più grande. Come è rimasto in me questo amore per il dettaglio, per la bellezza, e per lo scopo delle cose. E come ridevamo quando lui si arrabbiava perchè sbagliavamo a mettere i cucchiaini del caffè e brontolando ripeteva che non omnium est ratio, non tutti sanno usare la ragione! Perchè ogni cosa è fatta per uno scopo e se non lo rispetti violenti la realtà. E questo si può imparare anche coi cucchiaini del caffè! E se ci stavi, imparavi.

E poi la carità, la fraternità tra noi. Si cantava mentre si lavavano i piatti, si serviva a tavola, o si dipingeva un pezzo di una "baracca", si andava in gita, si facevano giocare i bambini, si andava a messa... La vita era una! E in tutta questa bellezza io devo dire, piena di gratitudine, che ho scoperto la mia vocazione.
Infine, tutto era un'occasione per imparare: perfino a guidare! Andavamo a Edolo e lui naturalmente guidava e mi diceva: «Vedi quello lì davanti? Non sa guidare. Guarda come frena a ogni curva. Tu, invece, impara a scalare le marce».
Gli aneddoti sarebbero centinaia.

Un'ultima cosa voglio dire: aveva una capacità di comprendere l'umano, la fragilità, la debolezza, straordinaria. Io capivo che ogni volta che mi diceva il suo imperativo classico: «Resisti nella fede!», anche di recente, quando il primo gennaio mi ha fatto gli auguri via skype, coglieva quel dramma umano che è di ciascuno e che era la sua lotta perchè Cristo vincesse in tutte le circostanze. E ha veramente vinto.
Loretta, Ecuador