Un detenuto nelle carceri Apac, Brasile.

Nei loro volti, il mio

La mostra di Avsi sulle Apac, le carceri brasiliane gestite da detenuti. Una volontaria spiega cosa ha voluto dire raccontare per una settimana questo «fatto impossibile». E perchè tra le righe dei pannelli si poteva leggere «quello che siamo noi»

Anche quest'anno Avsi ha proposto una mostra al Meeting e mi è stata chiesta la disponibilità come guida. Ho detto sì, perché l’esperienza di due anni fa è stata l’inizio di un meraviglioso terremoto.

La mostra era quella sulle Apac, le carceri brasiliane gestite dai detenuti. Mi inviano le slide con i pannelli e le studio con attenzione. Il primo pannello dice che queste carceri sono frutto di «un'audacia ingenua». L’espressione mi pare riduttiva. Sono espressione di follia pura, un sogno (realizzato), quello dell’avvocato Mário Ottoboni, che ha concepito un progetto "impossibile".

Rimini, 18 agosto, il giorno prima dell’apertura: spiegazione di Fabrizio Pellicelli, uno dei curatori. È lì che la sorpresa si fa più grande. Le testimonianze di eventi piccoli e incredibili chiariscono che la “follia” di Ottoboni produce esiti impossibili: recidiva del 15%, contro l’80% nazionale (più o meno pari al dato italiano), nessuna ribellione, l’ultimo tentativo di fuga 12 anni fa. Recuperandi che si sostengono a vicenda in un cammino quotidiano. Impossibile pensare che non ci siano pesantezze, difficoltà, ma la realtà è che qualcosa succede. E il curatore per spiegare una simile eccedenza dice: «È un’opera voluta da Dio», ma non è un coperchio messo sopra il fatto, sono ancora occhi grandi così per lo stupore.

Qualcosa succede, qualcosa che è impossibile, contro ogni logica umana: è questo che presento giorno per giorno a chi visita la mostra, una di quelle definite “piccole”, ma così richiesta da costringere a mettere da parte l’idea dei turni e degli orari fissi per le visite guidate: un ciclo continuo. Stancante, certo, ma ne vale la pena per tutti noi, anche per chi viene assoldato lì per lì perché i volontari non bastano a coprire le richieste.

Ne vale la pena perché questa mostra è, come altre volte senza capirlo avevo sentito dire, «un’esperienza». La voce sempre più roca con il passare dei giorni racconta di José, 58 processi, 106 anni di carcere, oltre 30 fughe nel sistema comune, che dall’Apac non scappa perché «dall’amore nessuno fugge». E, mentre spiego il pannello, improvviso il pensiero che quest’uomo non scappa, eppure sa che morirà qui dentro! Non scappa! L’impossibile che succede.

La voce roca indica il volto bellissimo e sorridente di un ragazzo che scorre nel video, grato di vedere dall’Apac, ogni sera e ogni mattina, le montagne. E racconta del recuperando che non si pettina perché non vuol vedere nello specchio il mostro che è diventato. Poi c’è la foto dell’altro che canta a squarciagola, tutto compreso nel suo gesto, in occasione della Giornata di liberazione con Cristo. E, sempre, c’è l’invito a identificarsi in queste vicende: il Brasile magari non lo visiteremo mai, il carcere neppure, ma l’esperienza delle persone di cui leggiamo è simile alla nostra. Le scuse che prendono per nascondere a sé il male compiuto sono le stesse che prendiamo noi tutti i giorni, più piccole, certo, perché meno necessarie, ma lo stesso criterio.

Perché questa mostra è un’esperienza? Perché dentro leggiamo quello che siamo noi, pur nelle diverse dimensioni, quello a cui aspiriamo, cioè la bellezza che intuiamo tra le righe dei pannelli, e scopriamo di provare com-passione, quella santa meravigliosa identificazione con l’altro nel quale scorgiamo qualcosa di noi. E i visitatori li vedi commossi, si fermano a chiedere, ti ringraziano, mentre tu pensi che c’è già subito un altro turno da fare, magari sei stanca, ma anche con questo giro scoprirai qualcosa di nuovo, troverai te stessa tra un pannello e un video, le tue debolezze quotidiane, il tuo bisogno così immenso e mai abbastanza riconosciuto, il tuo desiderio di cose grandi. Dentro le facce che indicherai scorgerai meglio la tua.

Patrizia, Brasile