Julián Carrón durante il saluto al Papa.

«Che il dono che abbiamo ricevuto sia sempre questo fuoco»

La traduzione dell'intervista radiofonica a Julián Carrón, dopo l'Udienza del 7 marzo. Dalle parole del Papa al motivo per cui, in 80mila, si sono raccolti a Roma: «Chiediamo, come don Giussani, che Cristo afferri tutto il nostro cuore»
José Luis Restán

È oggi con noi il sacerdote spagnolo Julián Carrón, attuale presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ad appena due giorni da un indimenticabile incontro con papa Francesco in Piazza San Pietro, presenti oltre 80.000 membri di questo movimento giunti da tutto il mondo.

Il Papa ha chiesto ai membri del movimento di essere le mani, i piedi, le braccia, la mente e il cuore di una Chiesa in uscita. Come pensa che questa richiesta del Papa possa tradursi nella vita quotidiana del movimento?
Fondamentalmente in continuità con quello che è il Dna del movimento stesso. Il movimento è nato proprio nelle periferie, in ambienti come la scuola, l’università, i luoghi di lavoro, rispondendo a tanti bisogni che vediamo nei quartieri: persone senza lavoro, che non arrivano alla fine del mese, che sono in cerca di una speranza, che hanno bisogno di trovare un senso della vita, gli immigrati… Tutto ciò fa già parte del nostro modo di stare nella realtà e di vivere ciò che ci è accaduto. Perciò in questa ulteriore indicazione del Papa recepiamo uno stimolo a vivere quello che già siamo e viviamo, ma con una maggiore consapevolezza.

Che differenza c’è tra il mantenere viva la freschezza e la vitalità del carisma, ora che don Giussani non è più presente, e pietrificarlo, come ammoniva sabato il Papa? Come sente questa sua responsabilità?
Mi sembra che questa sia la responsabilità propria di ogni cristiano per il quale l’avvenimento di Cristo non si riduca a qualcosa che appartiene al passato, ma sia un fatto presente che determina la vita. Ce lo dice l’esperienza umana. Una cosa è innamorarsi di una persona come un fatto presente, che ben sappiamo in che misura determina la vita, rendendola piena di una presenza così presente da farci traboccare di gioia e di letizia; ma sappiamo bene che cosa accade quando tutto questo si riduce semplicemente a un ricordo, si pietrifica, o si converte in qualcosa di arido, senza la novità, la freschezza dell’inizio. E questo accade anche con il cristianesimo. Se il cristianesimo è solo un ricordo del passato e non un avvenimento presente, ultimamente non interesserà; non sarà in grado di attrarre il cuore, di afferrarlo con tutta la sua umanità, e quindi il cristianesimo non interesserà. Siamo andati a Roma proprio con il desiderio di chiedere questo, perché siamo consapevoli che non ce lo possiamo dare da soli. Così come è stato un dono l’averlo ricevuto attraverso il carisma di don Giussani, dobbiamo chiederlo, come lui ci ha insegnato a chiederlo, perché questo dono che abbiamo ricevuto sia sempre quel fuoco di cui ci ha parlato il Papa.

Quelli che conoscono meno la realtà di CL potrebbero pensare che si tratti di un fenomeno tipicamente italiano, anche se il fatto che lei sia qui già appare come una smentita, così come lo è quella piazza in cui vi erano persone di ogni continente; le chiederei allora di fare un piccolo zoom, di tracciare un piccolo atlante della presenza di CL nel mondo.
Il movimento è cresciuto considerevolmente negli ultimi anni, toccando ottanta Paesi, ovviamente con presenze diverse anche numericamente tra un Paese e l’altro. In alcuni è una realtà iniziale, in altri una presenza più consolidata. Indipendentemente dai numeri, che dipenderanno da come il Signore vorrà usare di questa grazia che ci ha dato, quello che ci interessa è la verifica di quello che abbiamo ricevuto, cioè che quando uno vive il cristianesimo, come ci ha insegnato don Giussani, negli elementi più essenziali, più elementari della fede, può incontrare il cuore di qualunque uomo, in qualunque continente, in qualunque cultura, in qualunque situazione in cui sia chiamato a vivere la vita. E questo per noi è una sorpresa continua. Sabato in piazza c’erano persone che venivano dalla Cina, dalla Nuova Zelanda, dagli Stati Uniti, dall’America Latina o dalla Russia. E questo dice che il cuore dell’uomo, di ogni uomo a qualsiasi latitudine, attende un incontro che possa dargli il gusto di vivere.

Papa Francesco ha detto che la morale cristiana non è uno sforzo titanico per essere coerenti con una serie di principi, ma la risposta commossa dell’uomo alla misericordia imprevedibile di Dio. Ho la sensazione che questo sia un punto che oggi in alcuni ambiti ecclesiali è scottante, fa discutere, e certamente mostra una sintonia particolare con la percezione che aveva don Giussani.
Siamo i primi a essere profondamente commossi per il fatto che qualcosa che don Giussani ci diceva molti anni fa, e che ci ha sorpreso quando lo abbiamo udito la prima volta sino al punto da commuoverci perché ci siamo sentiti abbracciati nella nostra umanità e nel nostro peccato, sia detta oggi dal Papa a tutta la Chiesa. E questo ci dice una cosa fondamentale per capire il cristianesimo: che il cristianesimo può essere ridotto, come hanno già sottolineato i pontefici precedenti, a cominciare da Giovanni Paolo I, poi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, a un’etica. Don Giussani ci ricordava sempre la famosa affermazione di Giovanni Paolo I, secondo cui la Chiesa nel tentativo di presentarsi moderna ha trasformato lo stupore dell’inizio in una serie di regole, nello sforzo titanico dell’uomo. Su questo hanno insistito in tante occasioni Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: quando il cristianesimo si riduce solo a questo, perde la sua vera natura di avvenimento che cambia la vita. Sabato il Papa ha citato la famosa scena della Vocazione di Matteo dipinta da Caravaggio, nella quale lo stesso Matteo, un peccatore per il mestiere stesso che faceva, l’esattore delle imposte, è pieno dello stupore nel sentirsi chiamato, proprio lui, da Gesù che conosceva tutto il suo male. Posso immaginare quello che è accaduto sabato in piazza in alcuni detenuti nelle carceri italiane che hanno avuto occasione di incontrare il movimento, che cosa avranno provato quando il Papa li ha abbracciati. È l’esperienza di Matteo, come di ogni peccatore della storia davanti a Cristo, come di ognuno di noi. Per questo l’esperienza che si porta a casa, che conserva negli occhi e in ogni fibra del proprio essere, chi ha partecipato a un gesto come quello che abbiamo vissuto sabato in Piazza San Pietro, è questo abbraccio pieno di tenerezza, della misericordia di Cristo che ci ha raggiunto un’altra volta attraverso papa Francesco.