Lo psichiatra Eugenio Borgna.

Un'ora e un quarto di «stupefazione»

Lo psichiatra Eugenio Borgna alle prese con il video per i sessant'anni del movimento, visto non appena è uscito. La gratitudine per la storia e per i volti che don Giussani ha generato, insieme a quel «filo invisibile» che si chiama comunione
Paola Bergamini

«È stata un'ora e un quarto trascorsa in una condizione umana di partecipazione emozionale e di pensiero. Nella stupefazione di che cosa don Giussani ha generato. Oggi, in tutto il mondo». Così Eugenio Borgna, primario emerito di Psichiatria all'ospedale Maggiore di Novara, racconta del video per i sessant'anni del movimento, «visto immediatamente, appena mi è arrivata copia di Tracce». Quel primo incontro con don Giussani, avvenuto a fine anni Ottanta, rivive oggi guardando lo scorrere delle immagini di questa storia che negli anni si è intrecciata in vario modo con la sua.

Che cosa l'ha colpita del video?
La continuità delle esperienze, cioè l'accoglienza degli altri, del mistero dell'altro. C'è un filo che unisce tutte le situazioni: una comune speranza, una capacità di vivere l'istante in cui emerge il destino di ogni incontro. Direi la capacità di testimoniare, sempre, anche nel dolore e nella sofferenza, quel desiderio di infinito che oltrepassa il dolore, le angosce la disperazione. Nei volti delle persone - donne uomini, bambini - ho ritrovato lo specchio della semplicità, della profondità, della capacità di intendere i significati che si nascondono nell'infinita fisionomia della realtà che contraddistingueva don Giussani.

In che senso?
Ho risentito e rivisto l’enorme ricchezza umana di don Giussani. La sua capacità di ascoltare senza giudicare, di superare qualunque distanza apparente, come è avvenuto con me. Fin dal primo incontro sono stato immerso in una conoscenza, in una amicizia che veniva da lontano. Era la sua capacità di cogliere quello che oltrepassa l'apparenza. Un’esperienza che non ho mai avuto con altre persone. Ecco, questo aspetto ho rivisto.

Qualche esempio?
Nella povertà delle favelas brasiliane o nella freddezza apparentemente agghiacciante dei grattacieli di New York, la capacità di creare relazioni. Meglio: di creare comunità di destino, la chiamerei. Ho colto quel filo invisibile, che appunto è la comunione, che permette di superare ogni individualismo, ogni egoismo e dà la speranza di essere accompagnati da uno sguardo umano, riverbero della presenza di Dio. Le bellissime immagini, che sembrano a tratti quasi slegate le une dalle altre, sono collegate da questa misteriosa unità che dà il senso del vivere a tutti, anche a chi vive in condizioni meno drammatiche.

C’è un’immagine che più le ha fatto pensare che la strada è bella?
I ragazzi di Taiwan. Che con i loro volti sorridenti mi hanno comunicato un senso di fragilità che però si riempie di luce e quindi è più resistente dell’acciaio.

E quella più struggente?
Le favelas brasiliane. Un deserto reso fecondo, trasformato da queste esperienze. La speranza sembra ancora più intatta, più alta quando sgorga dalla disperazione. Nei cuori che vengono colpiti e per questo riscattati e trasfigurati. Ma tutto il video è il palpitare di una vita intesa come insieme di dolore e di fatica, di speranza e di nostalgia. Ma soprattutto che la vita è bella se sostanziata, accompagnata da quelle che sono state e che sono le parole fondamentali provenienti dal cuore e dal pensiero di don Giussani.

Cosa significa?
È quello che accade quando la vita si fa donazione, che insieme a "speranza" e "comunione" è la parola che emerge. Nei volti e nelle immagini ho colto l’impronta indimenticabile della donazione. Quanto tu apparentemente più doni all'altro, ecco che questo dono si riverbera in te e quindi la testimonianza è infinitamente più grande anche perché implica uno slancio che comprende sacrificio. È una questione di rapporto. Mi ha colpito in questo senso la testimonianza di Joseph Weiler, il giurista ebreo che ha detto con un rigore quasi chirurgico che la sua fede era diversa da quella cristiana. Ma ha anche sottolineato come in Giussani la distinzione passa nel fatto che ci siano persone che credono fino in fondo in qualcosa che rende la vita comunitaria, da chi invece vive e muore imprigionato nella propria solitudine e nella propria indifferenza.

Nel documentario, la giornata è scandita anche dalle immagini e dalle parole di Carrón. Che cosa ha pensato quando lo ha visto?
Io non l'ho conosciuto direttamente. Le differenze psicologiche con Giussani mi sono sembrate evidenti. Confrontando idealmente le sensazioni che ho provato vedendo e ascoltando Giussani, ho trovato però una continuità sul piano della testimonianza. La capacità, cioè, di rendere in qualche modo vicino al cuore il senso profondo del Mistero, ciò per cui vale la pena vivere. Le forme, per così dire, teologiche del pensiero di don Carrón vengono istantaneamente trasfigurate dal suo modo semplice e immediato con cui trasmette i suoi pensieri che raggiungono il cuore e la mente di chiunque - come è stato per me - lo ascolti senza averlo mai prima visto. Una testimonianza espressa, in modo diverso da Giussani, da un punto di vista della psicologia, ma animata da quella stessa immediatezza, da quella stessa attitudine a creare dal nulla una relazione con le persone sapendone cogliere le vibrazioni interiori.