Il coro CeT ad un concerto.

«Continuate a cantare per Lui»

La passione di Giovanna? La musica. Lei è malata di Sla. I figli invitano a casa il coro CeT. Si comincia da "Monte Canino". Fino a una crisi respiratoria. Ma quando si riprende non vuole che se ne vadano: «Gesù vi renderà merito per le vostre voci»
Alessandra Stoppa

Stasera niente prove. Si va a cantare a casa di Giovanna. I ragazzi entrano in salotto, uno dopo l’altro: un coro intero, per farle sentire i canti di montagna. Lei li saluta con gli occhi, chiari. Giovanna si è ammalata di Sla quattro anni fa. Dopo aver perso il marito giovane e aver tirato grandi i sei figli. Sono loro a prendersi cura di lei, attenti al suo respiro, a ogni battere di ciglia. Hanno imparato a capirla così, anche quando le sale su il desiderio di dire e le si ferma in gola, o di cantare, e non può farlo. La musica è la sua passione. E allora i figli le organizzano dei piccoli concerti in casa. Stasera è venuto il coro CeT, Canto e Tradizione. Più di una ventina di ragazzi. Sono abituati a cantare davanti a tre, quattrocento persone, e sono qui per lei. Il colpo davanti a Giovanna è forte, li fa timorosi. Ma i figli sciolgono ogni imbarazzo, chiedono di loro. Si presenta il capocoro, Alessandro, poi il più “piccolo”, Simone, e via via tutti. Il coro è nato una decina di anni fa da alcuni ragazzi del Politecnico, allora sono soprattutto studenti d’Ingegneria, o già laureati, ma poi spunta qualche letterato, altri da Medicina, Giurisprudenza.

Si comincia. Monte Canino. È quella con cui iniziano ogni concerto, perché «racconta di tutta la durezza della salita, ma anche di una certezza», dice Vittorio. Se avete fame, guardate lontano / se avete sete, la tazza alla mano / che ci rinfresca, la neve ci sarà. È la prima cosa che lo commuove nel cantarla davanti a Giovanna: «La neve ci sarà. È una promessa sicura».
Continuano con altri canti. Ma, dopo mezz'oretta, Giovanna ha una crisi respiratoria. I figli la soccorrono subito. I ragazzi s’impauriscono, e stanno in silenzio, imbarazzati. «Volevo andare via», racconta Carlo. Ed è quello che attraversa anche i pensieri degli altri. «Ci ha presi un po’ la paura, un po’ la preoccupazione di essere di troppo in quel momento». Pian piano Giovanna si riprende. E, subito, fa cenno con gli occhi di voler parlare. I figli le avvicinano il pannello con le lettere: le fissa, una dopo l’altra, per dire qualcosa. «Ora si scuserà perché non se la sente di continuare. Ma va bene così, è già tanto essere stati qui fino adesso», pensa Carlo. La figlia aspetta, poi ripete quello che la mamma ha “scritto”: «Mi fate quella... come si chiama... Sono tre ore che sono qui...». Non ci credono. «Lei voleva che stessimo lì. Voleva che continuassimo a cantare», dice Vittorio: «E voleva una canzone allegra». La storia di Bepin, che chiede all’amata di affacciarsi perché ogni volta che te rivedo me mi vien el sbrisegolin. «In quel momento, il pensiero di fuggire, la paura... Non c’era più nulla. Abbiamo ripreso a cantare, ancora più presenti nel farlo».

Quando finiscono, Giovanna sbatte gli occhi più volte. Vuole parlare di nuovo. Tutti aspettano in silenzio. «Gesù vi renderà merito per le vostre voci». Guarda ancora le lettere, una alla volta: «Continuate a cantare per Lui». È uno schianto. Il silenzio nel salotto si fa pieno. «Lei ha capito il senso profondo per cui io canto», continua Vittorio: «Stava vedendo il mistero di Cristo». Pensa a sé, a quanto è ottenebrato perché è sotto esame, per le cose che ha da fare. E guarda lei, «che vive una sofferenza immensa, ma splende. Riconoscere il Signore nella realtà è più forte».
Prima di andare via, Giovanna chiede di pregare insieme, vuole donare a ciascuno la preghiera per la beatificazione di don Giussani e chiede che la recitino tutti i giorni. Poi li saluta: «Al bar di sotto vi aspetta la grappa».
Scendono, festeggiano, e continuano a cantare nella piazzetta. Non sanno se Giovanna li sente attraverso le finestre. Ma loro sono così grati. «Siamo venuti da una donna che sta male per farle un regalo, e lei ci ha ricordato l’origine di ogni cosa. Riceviamo tutto. La vita, il respiro, il senso delle cose». Alle prove, la settimana dopo, è diverso. «Non solo il cantare», dice Carlo, «ma anche come ci trattiamo». Sentono dominare quello che hanno visto, anche per chi tra loro non sa da dove viene. Qualcosa di invincibile. «Una fede che nell’ombra della malattia e della morte non cede. Ma risplende più viva che mai».