Bastiglia, dopo l'alluvione.

«Travolti dal Bene, più che dalla piena»

In poco più di un anno e mezzo, Valentina e la sua famiglia hanno dovuto lasciare casa due volte. Prima il terremoto, poi l'alluvione. Oltre al dolore, un popolo che si muove per aiutarli. E «ci si ritrova con le lacrime agli occhi a ringraziare Dio»

Andarsene da casa fuggendo due volte in poco più di un anno e mezzo è possibile? «Non è possibile che stiamo scappando ancora», dice mia figlia in lacrime alle due di pomeriggio di domenica 19 gennaio, mentre attraversiamo la strada con l’acqua alle ginocchia per raggiungere in fretta e furia la macchina e salvarci dalla piena che sale velocissima di livello, invade le vie e comincia a penetrare nei giardini. Dieci minuti per uscire, non portando niente con sé. Quattro giorni di attesa, mentre l’acqua con una potenza impressionante travolge paesi interi e arriva a livelli impensati. Più di un metro e venti al piano terra della nostra casa, presa in affitto dopo il terremoto che ci ha costretto a lasciare Mirandola nel maggio 2012. Giovedì 23 riapriamo il garage, camminando nella melma, e scopriamo che tutto quello che avevamo salvato con cura dalla casa di Mirandola, grazie all’aiuto di tanti, è sommerso dalla piena implacabile. I libri, le foto, i quadri e gli oggetti più disparati, ricordi di una vita intera di una famiglia con tre figli, sono diventati un unico ammasso informe nell’acqua putrida mista a fango. I mobili della lavanderia travolti e ribaltati, contorti, gli elettrodomestici naufragati. E poi la costernazione nel pensare agli amici ancora più colpiti e l’incredibile spettacolo di un paese intero sommerso dal fango e della sua gente operosa e disperata, che si è subito messa a ripulire rovesciando in strada e nei giardini cumuli di detriti, da cui affiora tutta la nostra misera e splendida quotidianità.

Difficile raccontare cosa è successo davvero in questi giorni. Per noi, per me dovermi staccare ancora una volta dalle cose a cui mi sento così attaccata… C’è un momento in cui bisogna lasciarle andare. O loro o te, o vai a fondo con loro, o scopri una strana libertà nel vedere che anche se le lasci, resti viva. Con tutte le ferite aperte e sanguinanti, ma viva. L’io non si spegne. Mentre butto quasi a uno a uno i libri, più di mille, capisco che non è un male amare le cose, ma non sono loro la tua carne. Intanto, salviamo le tazzine con il bordo di oro zecchino, regalo di nozze. E non mi sembra inutile, perché la bellezza attrae sempre anche in mezzo al fango. Trovo nell'acqua anche la scatola con tutti i ricordi del matrimonio: i biglietti degli amici e altri piccoli oggetti da cui io non ho mai saputo separarmi, perché mi ricordano quel momento. Penso a lungo cosa farne, non volendo rinunciare a quella scatola. Poi la butto, anche quella, mentre mi riempie il cuore la certezza che il Sacramento non viene mai meno, e in certi momenti siamo chiamati a stare attaccati solo a Lui, perché è di Lui che le cose sono segno. Certe volte non ci si può fermare un secondo prima, senza arrivare fino a questa coscienza. E poi, ancora una volta, siamo travolti dal Bene, più che dalla piena. È questo fisico e amorevole sostegno che ci ha permesso, ancora una volta, di affrontare tutto quel fango e di non rifugiarci in un angolo a piangere.

Sono così tanti gli episodi, che è impossibile ricordarli tutti. Ci sono fatti che interpellano direttamente il cuore di ogni uomo, e il cuore risponde improvvisamente secondo la sua natura e si mette in movimento per soccorrere e farsi presente a chi è nel bisogno. Ed è veramente un sollievo poter essere "solo bisogno", come ci sorprendiamo in questi frangenti, e non aver niente da dimostrare. Come è più umano essere liberi di chiedere tutto e di lasciarsi voler bene e di farsi accogliere. Siamo investiti da un’ondata di Bene che prende tutte le forme possibili e ci raggiunge per le vie più impensate. Tanto da far dire a Francesco, un giocoliere che ha rinunciato a uno splendido weekend sulla neve per venire a spalare fango a Bastiglia: «È un miracolo». È il miracolo di un popolo che si mette in movimento e con straordinaria gratuità sostiene, aiuta e accompagna. Paolo, ad esempio, che va dal nostro vicino anziano e solo, alle prese con il suo garage, così intristito e incapace di volersi bene, che mentre lavora si ferisce e non si disinfetta neanche, e gli dice: «Gino, sono venuto ad aiutarti». Bisogna raccontare dell’Irene, una bambina di quasi 11 anni, che lava a uno a uno i Lego dei nostri figli, perché «i Lego bisogna salvarli», e torna a casa dicendo alla mamma che non credeva si potesse scherzare e ridere anche se si è in una situazione così brutta. Sua mamma, la mia collega Monica, che con il marito e la figlia ha passato la domenica mattina ad aiutarci, le dice che quando non si è soli le cose si possono affrontare e che è in questi momenti che ci si può rendere conto che le persone contano più delle cose.

Bisogna raccontare dei ragazzi venuti da Milano per aiutarci: si sono ritrovati nel garage seminterrato di una signora a recuperare il treno di gomme appena acquistato, e di Caterina e Paolo che hanno steso a una a una le nostre foto del viaggio di nozze sulla carta assorbente per provare a salvarle. Della bibliotecaria di Correggio che ci ha regalato la sua copia di un libro introvabile e perduto nel fango, uno dei preferiti del mio figlio più grande, ringraziando per aver avuto la possibilità di aiutarci. E allora ci si ritrova con le lacrime agli occhi a ringraziare Dio che ancora una volta non ci ha lasciati soli, mettendo nel cuore dell’uomo il desiderio del Bene, perché nessuno sia abbandonato alla furia dell’acqua e possa non perdere la speranza. C’è una poesia di Hugo Mujica che ben esprime questo senso ultimo delle cose di cui abbiamo fatto esperienza in questi giorni: Conoscersi è una consegna/ non un sapersi/ è slegarsi /e scoprire che non affondiamo/ che siamo sempre stati/ sostenuti.
Valentina, Bastiglia