Luciano Violante.

«Un cristianesimo non impaurito della vita»

L'invito al Meeting di Rimini, la biografia scritta da Savorana e quell'insistenza «sull'essere presenti». A nove anni dalla scomparsa del fondatore di Cl, il racconto di Luciano Violante sul suo incontro, senza averlo mai conosciuto di persona
Stefano Filippi

Luciano Violante, 72 anni, ex magistrato, docente di Diritto penale, una militanza politica a sinistra culminata nella presidenza della Camera tra il 1996 e il 2001, non ha conosciuto di persona don Luigi Giussani, di cui sabato 22 febbraio ricorre il nono anniversario della scomparsa. «No. E non sono cattolico». L'incontro è avvenuto attraverso le 1.400 pagine della biografia scritta da Alberto Savorana. Violante è stato toccato in profondità.

Quando ha incontrato Cl?
Sono credente, ma non sono cattolico. Qualche anno fa ero stato invitato a Rimini per un dibattito con Angelino Alfano, lui era ministro della Giustizia mentre io non ero già più parlamentare. Ho avuto l'impressione di una grande serena forza morale, e questo mi interessa molto. Non sono uno di voi, ma sto vicino a voi.

Il suo intervento alla presentazione di Vita di don Giussani a Padova denota un interesse attento e partecipe.
La biografia di don Giussani mi ha colpito per vari motivi. Le confessioni religiose si dividono in due grandi categorie, a mio avviso: quelle normative e quelle fondate sui comportamenti. L'Antico Testamento, la tradizione ebraica e quella islamica sono normative, mentre la dimensione che dà Giussani è quella di una religione fondata sui comportamenti, come quella dei Vangeli. Un atteggiamento comunicativo fondato non su decaloghi, grammatiche e codici, quanto su comportamenti. Dice che il cristianesimo non è una teoria ma un fatto, un avvenimento, un’esperienza. Questo è un dato innovativo e moderno.

«È ragionevole colui che sottopone la propria ragione all'esperienza», dice don Giussani citando Jean Guitton. E lei sottolinea: l'esperienza è più vasta della ragione, e questo comporta nella nostra vita l'esistenza del mistero.
C'è uno scarto tra ragione ed esperienza, tra quello che sai che c'è, ma non riesci a cogliere con la ragione. In questo senso il mistero in Giussani non mi pare essere una sorta di scappatoia giustificatrice per spiegare l'ignoto o l'inspiegabile, ma un'occasione per approfondire il senso della vita. Lui vede il mistero non come una resa, ma un momento che impegna a fare uno sforzo in più per capire il senso della vita.

Lei cita anche una seconda frase di Giussani: «La soluzione dei problemi che la vita pone ogni giorno non avviene affrontando direttamente i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta».
È un'osservazione che mi ha colpito e continua a colpirmi, perché molti problemi non sono fuori, ma dentro di noi. E il modo migliore per risolverli è capire la persona che deve affrontarli, se necessario capire meglio se stessi.

Perché questa insistenza sulla persona prima che sul problema la interroga tanto?
Mi sono spesso chiesto per quale motivo un problema insormontabile per una persona è facilmente risolvibile per un'altra: forse dipende dalla persona, non dal tipo di problema. E quindi andare incontro alla persona che si trova in difficoltà è forse il modo migliore per aiutarla a superare il problema. Giussani punta l'attenzione su questo: spesso una soluzione ai problemi si trova dentro la persona. La persona come luogo in cui si crea l'esperienza e il rapporto con il trascendente, luogo in cui la realtà si manifesta come più vasta della misura della ragione.

La coscienza del rapporto con il mistero riapre la domanda sul senso della vita.
Sono legato a un'idea per la quale all'origine c'era il male e Dio si è affermato per combatterlo; mi ha perciò colpito questa dimensione della libertà e della consapevolezza, del valore della persona, dell'impegno a capire e considerare non teorie ma fatti, avvenimenti: questo è ciò che dà un senso, una spinta alla vita. La vita ha un senso perché la partita tra il bene e il male non è finita, non si è conclusa una volta per sempre. E allora il senso della vita è quello di combattere su una frontiera, che è la stessa frontiera di nostro Signore. Lo scontro tra bene e male non è stato ancora vinto e noi possiamo darci un ruolo, un compito.

Il cristianesimo come un fatto, un incontro, un avvenimento: è questo che la colpisce di più di don Giussani?
E anche il dato di un cristianesimo non impaurito della vita. Una fede che combatte, milita, afferma la sua esperienza nella vita. Un cristianesimo che prima di pensare alla trasformazione del mondo cerca di essere presente nel mondo.

Essere presenti prima che trasformatori. Affermare una presenza prima che fornire ricette o realizzare un ideale magari utopico: è questo che intende?
Molto spesso l'obiettivo trasformatore è anteposto alla presenza. Mi pare importante questo dato dell'essere presente attraverso un cristianesimo che non ha paura di misurarsi con i problemi della vita. Essere presenti, vivere il mondo. C'è una frase straordinaria di Oscar Wilde che dice: per il popolo si può morire ma il problema è mangiarci insieme. Giussani ci dice che prima di impegnarci a morire per il popolo dobbiamo mangiarci insieme, condividere i suoi bisogni.