Il manifesto di una delle presentazioni.

Quei 200 nuovi compagni di strada

Un anno di presentazioni. E una serie infinita di incontri, storie, sorprese. Alberto Savorana racconta il “giro d’Italia” del libro. Dal sindaco di sinistra alla sconosciuta che «non era lì per caso» (da "Tracce" di settembre)
Davide Perillo

Un centinaio di presentazioni già fatte, un’altra cinquantina in calendario. E una volta su due, lui c’è. A conti fatti, per Alberto Savorana vuol dire avere incontrato quasi duecento persone solo sul palco: vescovi e giornalisti, imprenditori e docenti universitari, politici e umanità varia. Tutti impegnati a confrontarsi con la sua Vita di don Giussani.
Il libro è uscito un anno fa. Il tour è iniziato quasi subito. E si è riempito di fatti e incontri che per Alberto sono una sorpresa continua. «A cominciare dall’antefatto, per cui sono grato a don Carrón. Quando a fine luglio 2013 gli ho consegnato la bozza finale, gli ho detto che a quel punto, finito il mio lavoro, avrei tanto desiderato scomparire perché in primo piano ci fosse solo Giussani. Non avevo ancora finito la frase che mi è arrivata la sua ennesima correzione: “Non te la cavi così facilmente! Senza di te questo libro non ci sarebbe”. E forse leggendo sul mio volto qualche segno di orgoglio, ha aggiunto: “Guarda che non è un giudizio morale, ma un fatto. Perciò, mi spiace, non puoi evitare di andare a raccontare che cosa ha significato per te incontrare di nuovo don Giussani, con questo lavoro sulla sua vita”».

Che cosa è successo in questi mesi?
Molto di più di quello che pensassi. Mi immaginavo qualcosa, visto l’effetto che il libro aveva prodotto su di me. Ma non così.

In che senso?
Non ho trovato neanche un relatore che abbia preso in qualche modo le distanze. E mi impressiona la serietà con cui ci si sono paragonati. Anzitutto, l’hanno letto: non è scontato per un volume di 1.350 pagine. Arrivavano tutti con il libro pieno di post-it, segni, pagine di appunti. Ho visto gente a cui don Giussani per qualche settimana ha fatto compagnia. Poi, mi stupisce che tutti ne parlino al presente, proprio come forma verbale. Segno che non stanno commemorando un morto, ma incontrando qualcuno vivo. Terza cosa: tutti, in qualche modo, colgono qualche dato della vita di Giussani, qualche sua preoccupazione, qualche espressione significativa, come qualcosa che ha da dire alla loro vita adesso. Si tratti di manager, magistrati, sacerdoti... Quasi senza volerlo, mentre leggono cominciano a prendere appunti perché don Giussani ti interroga. E ti costringe a pensare a qualcosa di te, non ti lascia tranquillo.

Puoi fare qualche esempio?
Non so... Giovanbattista Tona, magistrato antimafia, che dice: «Per fare giustizia sovviene un monito di don Giussani: Cristo non è venuto a risolvere i problemi della giustizia, ma a porre nel cuore dell’uomo quella condizione senza la quale la giustizia potrebbe avere la stessa radice dell’ingiustizia». O Paolo Zaccarelli, responsabile delle risorse umane di una grande Cooperativa della Lega, che resta colpito «dal Giussani che scommette tutto sulla persona, io che ho a che fare con persone, formazione, educazione». Oppure, Luciano Violante, a Padova, quando ricorda la frase che lo ha toccato di più: «La soluzione dei problemi che la vita pone ogni giorno “non avviene direttamente affrontando i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta”. In altri termini, “il particolare lo si risolve approfondendo l’essenziale”». E lo dice da ex comunista che aveva scommesso tutto sulla soluzione dei “problemi particolari”.

Secondo te da dove nasce questa disponibilità non a discutere un “tema culturale”, ma a mettersi in gioco?
Da due motivi. Uno: sono tutte persone che hanno molto vivo il senso della propria umanità, la percezione della drammaticità della nostra condizione. Quindi scatta l’interesse, la curiosità ad intercettare chiunque abbia da dire qualcosa su questo, possa dare un contributo. E in tanti casi è singolare che lo trovino in Giussani, a fronte di anni in cui CL è stata oggetto, soprattutto sui media, di campagne non proprio positive. Ma il secondo motivo è la svolta che Carrón ha dato con l’articolo del 1 maggio 2012 su Repubblica, quando ha rimesso a fuoco la natura del carisma senza tirarsi fuori dal giudizio storico su possibili errori, tradimenti, riduzioni. Lì è nata un’apertura generalizzata per cui tutte le critiche a movimento, affari e politica, non impediscono di provare un moto di curiosità.

Lo dici perché hai sentito qualcuno che ne parlava esplicitamente?
Molti. Da Gianni Riotta, per dire, che collega all’arrivo di Carrón l’inizio di una ripresa e «la necessità di una riflessione sull’origine del movimento», allo stesso Ezio Mauro, a Firenze. Dopo aver ricordato una serie di critiche che lui e il suo giornale ci hanno fatto negli anni, a un certo punto si ferma e dice: «Però bisogna riconoscere che due anni fa, con quell’articolo, don Carrón ha dato una svolta». Non è una cosa sottotraccia.

Arrivare a dialogare con così tanti personaggi, di qualsiasi estrazione, a questo livello di confronto, non aiuta anche a capire che cosa voglia dire essere una «presenza»?
Guarda, tante comunità di CL hanno preso sul serio quanto disse lo stesso Carrón un anno fa: «Non stiamo facendo propaganda al nostro fondatore: stiamo facendo pubblicità a un fatto presente». È un’occasione per sé. E questo lo si vede nella cura con cui sono organizzati gli incontri, o nel modo in cui vengono scelti i relatori: non innanzitutto persone compiacenti, ma figure significative della città, di solito laiche, anche esterne all’esperienza cristiana. L’approccio non è quasi mai «venga a presentare...», ma «le do il libro, provi a leggerlo, poi mi dice». Questo ha scatenato una serie di incontri anche con personaggi che sembravano lontani, magari anche ostili.

Anche qui: esempi?
Piero Colaprico, firma di Repubblica tra le più critiche con certe vicende politiche in cui è stato tirato in ballo il movimento. Si è trovato a mandare i figli in una scuola gestita da gente di CL. Loro tornano a casa contenti e a lui comincia a venire qualche dubbio sul movimento, che si era sempre immaginato come un centro di potere e intrallazzi. Poi legge il libro e dice: «Devo rivedere l’immagine che ho di Giussani. Non solo non cerca il potere, ma è l’anti-potere. È contro la riduzione». E racconta il suo incontro con Giussani, tra lo stupore generale. Sorprendente. Anche lui si è paragonato con lealtà con un testo e ha lasciato che questo smuovesse qualcosa. Lo stesso ha fatto Antonio Ramenghi, direttore del Mattino di Padova, che esordisce dicendo: «Vorrei chiarire subito da che parte sto, sono di stretta osservanza dossettiana. Ma adesso vi dico perché, leggendo il libro, ho scoperto che Giussani è un santo».

Segno che in chi si è preso il rischio di invitarli succedeva la stessa cosa: un desiderio di giocare in campo aperto, una coscienza del fatto che il problema è «come si fa a vivere», non «chi ha ragione». Forse anche una consapevolezza maggiore dell’esperienza che si sta facendo...
Appunto. L’opportunità di una presentazione pubblica ha costretto in qualche modo a quello che il Papa ci richiama di continuo: l’essenziale. Per andare a invitare un “avversario” politico o ideologico, devi essere sicuro che gli stai portando qualcosa di essenziale per te. Non un discorso, ma un’esperienza che vivi e vuoi condividere. Questo è anche il motivo per cui chi viene a presentare il libro arriva in qualche modo disarmato, senza il problema di dover accampare critiche o osservazioni polemiche per chiarire “da che parte sta”. È una scoperta che interessa a sé. Per cui uno come Virginio Merola, sindaco di Bologna, davanti a duemila persone presenti in Piazza Maggiore, si è commosso: «Anche per chi, come me, non riesce ad avere altro che la certezza del dubbio, è decisivo il ragionare di Giussani sulla base dell’esperienza concreta. Dobbiamo tenerlo nel cuore per non negarci la speranza che una vita felice è possibile. Continuiamo a cercarlo insieme, se me lo permettete». Una cosa da brividi. O Sergio Gambini, ex deputato del pd di Rimini, che da sempre vedeva i ciellini e il Meeting come avversari, che chiede «di fare un tratto di strada con voi». Senza rinunciare a niente della sua storia, ma intravvedendo una possibilità.

E tu? Davanti a questi fatti cosa ti viene in mente?
A Bologna, per dire, mi sono commosso anche io, pensando a Giussani quando si trovò a Recanati a parlare «del suo amico Leopardi». Lui disse che non avrebbe mai immaginato che sarebbe potuta succedere una cosa così, e se ne sentiva indegno. Be’, per me era lo stesso. Io alle presentazioni non arrivo mai con il discorso pronto: di fatto, reagisco a queste cose. Perché capisco che sta succedendo qualcosa in quel momento. Mi fanno cogliere aspetti che non avevo colto neanche io nello scrivere il libro, nel raccontare certi episodi. Me ne fanno capire di più il valore. Ma per lasciarsi sorprendere, bisogna imparare quell’apertura che diceva Giussani. Se no può succedere che alla fine dell’incontro qualcuno arrivi sotto al palco e ti dica: «Sì, bello. Però non sai chi è lui, da dove viene...».

E tu cosa rispondi?
Che non lo so e non mi interessa, perché io sto a quello che ho ascoltato lì. E lì questa persona mi ha dato una testimonianza della verità. Come per Giussani, che racconta: «C’erano bambini di quarta ginnasio che ti facevano delle osservazioni che ti lasciavano a bocca aperta. In quel momento io ero discepolo e annotavo. Quello era mia autorità». Se lui imparava da un ragazzino di 14 anni, perché io non posso imparare da un magistrato, da un sindaco, da un politico? Non ho bisogno che faccia autocritica per lasciarmi colpire dal fatto che dice una cosa vera.

Qual è l’episodio della vita di Giussani che ha l’impatto più sorprendente su chi legge?
Una cosa che vedo colpire tantissimi è il racconto della svolta della sua vita, il «bel giorno» in cui Gaetano Corti spiega il Prologo di Giovanni e lui capisce che la profezia di Leopardi si era già avverata milleottocento anni prima. Colpisce molto quando sottolineo che per Giussani questo è l’inizio del dramma della vita: invece di colmare la domanda, l’accende. L’immagine che si ha di solito è che uno prima è in ricerca, poi trova la fede e a quel punto la ricerca è finita. Quando racconto che da allora «l’istante non è più banalità» per lui, che la sua ricerca si accentua, questo fatto sorprende.

Chi ne è rimasto colpito?
Joseph Weiler, per dire, quando delinea «la filosofia educativa di don Giussani» fa notare che per lui è più importante la domanda della risposta: Giussani conosce la risposta, ma si è reso conto che non basta ripetere «Cristo». Occorre che sia risposta a una domanda. A un’urgenza. Solo ad una grande mancanza può arrivare la grande risposta che è la pretesa cristiana. Detto da un ebreo - che poi prende le distanze, ovviamente, da questa pretesa - è una cosa molto significativa. Ma anche uno come Giuliano Pisapia, sindaco di Milano ed ex allievo del Berchet. Lui racconta che «devo a Giussani l’avere scoperto il senso della solidarietà: l’ho imparato andando qualche volta in caritativa, perché ho capito che lui ci mandava in Bassa non solo per aiutare gli altri, ma per me».

E l’impatto sui giovani, su quelli che Giussani non lo hanno mai visto?
Ti faccio un esempio tra tutti: un gruppo di studenti di Gs di Modena, durante l’anno, si trova a dire l’Angelus prima della scuola. Con loro c’è anche un adulto, che ad un certo punto propone: «Perché non leggiamo tutti i giorni una pagina della Vita di don Giussani?». Cominciano, e vanno avanti, e avanti... Arriva il tempo della vacanza e i ragazzi dicono ai loro professori: «Noi vogliamo raccontare questa cosa a tutti». E decidono di farlo non nella sala dell’albergo, ma nella piazza di Canazei (vedi a p. 62). La verità è che i ragazzi che lo incontrano si ritrovano sfidati nel cuore della loro umanità e introdotti a un’esperienza umana inimmaginabile.

Ma questa capacità di generare ora, di Giussani, a cosa l’attribuisci?
Alla guida di don Carrón. Mi sembra il dato più eclatante. L’esperienza che ci sta facendo fare lui, in particolare il modo in cui rivive Giussani, si immedesima con le sue preoccupazioni, con la sua stessa esperienza, correzioni, sottolineature, è il primo modo che ha tolto innanzitutto me e poi chi organizza gli incontri da uno sguardo nostalgico, proiettato sul passato. Perché la cosa evidente è che non basta leggere o aver letto il libro per poter dire: «Vivo l’esperienza». Questo può accadere solo dentro un fatto che succede oggi. Senza, il libro sarebbe una commemorazione.

Ma tu che cosa stai scoprendo di Giussani attraverso questi incontri?
Il fatto che la sua è un’esperienza che parla a tutti ed è a portata di chiunque, non c’è bisogno di pre-condizioni particolari. Basta che uno abbia un minimo di umanità e rimane colpito, qualche cosa fa breccia. È una delle dimostrazioni più eclatanti della frase famosa di Joseph Ratzinger al funerale: «Giussani non legava a sé, ma a Cristo». E legando a Cristo, continua a generare. Perché porta al «desiderio di rivivere l’esperienza sua».

E la gente, il pubblico? Mi racconti un fatto che ti ha colpito dopo l’incontro? Una reazione, un commento...
È successo in una città del Sud. Mentre parlavo, c’era questa signora a metà sala, sulla sinistra, molto attenta, che ad un certo punto ha cominciato a commuoversi vistosamente. Aveva gli occhi lucidi. Mi ha colpito. Alla fine è venuta a ringraziarmi e le ho detto: «Ho visto che era molto attenta». E lei: «Sì, assolutamente. Pensi che io sono atea e non sarei mai venuta oggi. Solo che mio figlio è compagno di scuola di un altro ragazzo che frequenta il vostro gruppo e lo aveva invitato. Stamattina mio figlio mi ha detto: “Mamma, oggi non riesco ad andare. Vai tu al mio posto”. Non so perché l’abbia fatto, ma io sono venuta solo per sostituirlo. Non pensavo di incontrare una cosa così. Tutto questo non può essere successo per caso. Per cui la ringrazio». Alla sera, passeggiando per le viuzze della città, ci siamo incontrati per combinazione. E io le ho detto: «Anche questo non è un caso».