James Rubin.

Qui, dove tutto continua

Gallerista a Milano, americano, di padre ebreo e mamma cattolica. James Rubin non ha mai conosciuto don Giussani, ma racconta il suo incontro con il movimento. Un'amicizia travolgente, nata durante una passeggiata, da un quadro in una vetrina...
Alessandra Stoppa

Suo padre è stato uno dei più grandi galleristi statunitensi del secolo scorso. Suo zio ha diretto il Moma di New York. Lui, dopo essere stato illustratore pubblicitario, da diciotto anni fa a sua volta il gallerista d’arte contemporanea. E Dio non poteva avere cura più speciale che andandogli incontro con un quadro. Una mattina, mentre girava in bicicletta.

Per le stradine di Brera, il quartiere milanese degli artisti, James Rubin passa davanti alla vetrina di una storica galleria d’arte e viene folgorato dal dipinto di un mazzo di fiori. «Il mazzo di fiori rossi più insolentemente rosso che avessi mai visto». Un «richiamo improvviso», così rimonta in sella per cercare l’autrice e incontrarla. Il rapporto che nasce con la pittrice Letizia Fornasieri è quella che Rubin descrive come «una delle più significative, tenere e travolgenti amicizie della mia vita». E anche il primo, inconsapevole incontro con il carisma di Comunione e Liberazione. Di lì a poco, don Giussani sarebbe morto e Rubin non l’avrebbe mai conosciuto di persona.

«Quello che caratterizza la mia storia è una dicotomia», racconta nella sua galleria a pochi passi dal Duomo: «Sono nato in America, nel 1956, ma vivo in Italia da sempre. Mio padre è americano ed ebreo, mia madre italiana e cattolica. Ed io sono cresciuto unico maschio tra quattro sorelle. Questo mi ha molto formato...», sorride. Figlio di un divorzio, ha sempre sentito forte il bisogno di appartenere al ceppo americano ed ebraico della famiglia. L’attaccamento all’arte è stato questa strada, mentre lui cresceva nel tessuto cristiano delle tante città italiane in cui ha vissuto. «Ci trasferivamo spesso, per il lavoro del mio patrigno. E ovunque andassimo ad abitare, il punto di riferimento era la parrocchia». A sette anni, la madre lo fa battezzare, per non farlo sentire diverso dagli altri bambini. «Io non sentivo la religione, ma il rito della domenica era rispettato e, soprattutto, la chiesa era il centro di aggregazione dove cercavo i bambini con cui familiarizzare».

Fino a qualche anno fa, Rubin non avrebbe mai accettato l’idea di una verità rivelata. Ma ha sempre avuto un fermo rispetto per la Chiesa, «per un’istituzione che sfida il tempo ed è capace di incantare il mondo con irraggiungibili tesori di bellezza». E anche per quell’intuizione semplice di bambino, quando andare in chiesa significava stare con gli altri. «Un’attrazione di compagnia. Già allora...». E così oggi. Nel cammino di una conversione adulta, che è difficile, «perché rischia di essere molto di testa».

Ha incontrato il movimento quando la sua vita era già ben consolidata: «Avevo il mio lavoro, i miei amici, la mia famiglia. Ero lì, con tutta questa mia vita, e guardavo il movimento come una massa di persone. Che, però, aveva una forma diversa da quella con cui ti si presentano di solito le moltitudini. Tu pensi subito al frastuono, al disordine. E invece mi ricordo i primi Esercizi spirituali: ordine e grandezza. Mi ha molto impressionato». Dice che se non fosse stato per un incontro umano, avrebbe giudicato CL solo esteriormente. Invece ha scelto di coinvolgersi: «Ho iniziato a stare con Letizia e con gli altri amici del movimento, e pian piano ho visto dei fatti che mi hanno entusiasmato ed interrogato».

La chiama «l’inevitabile domanda», quella che nasce di fronte a cose che accadono che non ti spieghi. E ti chiedi se e come c’entrino con la persona e la presenza di Cristo. Una domanda che lui ha lasciato libera di trovare risposta dentro una convivenza, un coinvolgimento sempre più grande. «L’ho fatto perché era l’unico modo per conoscere davvero cos’è CL. Tutti abbiamo l’ambizione di trovare una forma collettiva che ci fa stare davvero uniti e che possa trasformare il mondo. Ne siamo tutti alla ricerca. Io l’ho trovata. Ma, all’inizio, rischiavo di intellettualizzare il movimento senza coglierne l’essenza, che è l’amicizia. Mi sembra che la partecipazione al movimento non sia né attivistica né passiva, è un’altra cosa, come dice Giussani: accade».

Incontri, letture, viaggi, cene. La conoscenza del cammino cristiano si fa strada. «Il cattolicesimo di CL, rispetto a quello che avevo conosciuto da bambino, è vissuto in tutti i momenti. Io sono cristiano al lavoro, mentre sto con le persone, quando sono a casa... È una concezione totalizzante dell’esperienza». Una delle cose che l’ha più colpito, fin dall’inizio, è la «capacità di trasformare l’ordinario in straordinario». A Scuola di comunità, sentiva parlare di cose che di solito scivolano sulla pelle. «Quelle persone ci si erano soffermate. Raccontavano la vita in una maniera diversa: fatti apparentemente banali e resi straordinari. Senza la fede tendi a disprezzare tutto quello che non ti gratifica, mentre nel movimento sento raccontare cose anche dolorose, ma dove le persone cercano di andare oltre il dolore, di trovare la bellezza tra le pieghe di una prova. Non c’è la rimozione di ciò che non è bello».

Dice che Giussani gli ha insegnato la differenza sostanziale tra razionalismo e ragionevolezza. «Il suo pensiero non è anti-razionale, non rifiuta il mondo di oggi, ne è dentro, non contro, ma lo completa. Ragione e religione non sono in opposizione, lui supera i limiti del pensiero razionalista. Tanto che nella vita del movimento vedi concretamente che le sfere più razionali della società non sono antitetiche ad una vita religiosa».

Il cammino di Giussani lo affascina perché «è un metodo». Ed è un metodo «adeguato ai nostri tempi». Ha letto la biografia e lo “segue” attraverso i testi e il rapporto con chi l’ha incontrato. «Quell’uomo non ha niente di “pretesco”, è così intraprendente. È come se avesse vissuto sempre ai limiti delle cose. E in un’obbedienza totale all’autorità della Chiesa, i limiti li ha anche spostati, ha aperto strade nuove». La prova più grande di questo «metodo» è per lui la continuità stessa del movimento: «Se uno fonda il successo sulla propria personalità, quando muore la sua eredità si disintegra, la gente si disperde. Invece qui, tutto continua. Il movimento ha un metodo, un criterio, che non è seguire una persona geniale».

Racconta le difficoltà dell’impatto, per esempio con il “linguaggio” di don Giussani: «Lui ha cercato e rinnovato le parole, usandole per descrivere fino in fondo esperienze profonde e complesse. Ma c’è il rischio che in noi diventi un gergo di appartenenza. Desidero che non sia mai un’esperienza per iniziati e che il movimento non si “fissi” per paura di rischiare, non si cristallizzi nella ripetizione, perché questa strada sia per tutti», dice pieno d’attesa. Lui non si è fermato a quell’estraneità iniziale ed è rapito dalla grandezza che il cristianesimo può portare nella vita, nell’arte e nella cultura, allo stesso modo in cui è rapito dall’oggetto anche più piccolo, perché lo guarda e ci vede un’opera d’arte. Vive con trepidazione una speranza, quella che nasca un’arte nuova dall’esperienza cristiana e dal movimento: «I cattolici, come dice don Giussani, sono chiamati ad essere una presenza “non reattiva”. Ma originale. Questa è una provocazione che non si può lasciar cadere anche sulla produzione artistica di oggi». Per lui è la scintilla di tante domande e di tutto il suo impeto: «Sarebbe così importante un’eredità di opere e di bellezza che esprima l’incontro con la fede. Il mondo ha sempre conosciuto il cristianesimo anche dalle sue “pietre”, perché quando si è davanti ad un’opera bellissima ci si chiede l’origine!».

Difficile, ma cruciale, è stato per lui il rapporto tra libertà e comunione. «Sembrano due termini fatti per collidere. Come si fa ad essere liberi e insieme? Eppure, sto imparando che lì si gioca tutto. L’individualismo di oggi nasce da un’estensione del diritto di libertà. A furia di chiedere diritti sempre più specifici, sempre più soggettivi, ci siamo isolati. E invece si può scoprire che in comunione si è più liberi». Nel lavoro, nell’affrontare un progetto nuovo, vede che la sua libertà è amplificata se lo fa insieme agli altri. Sente vivo più che mai il richiamo del Medioevo, dove le opere, come per esempio le grandi fabbriche delle Cattedrali, non erano firmate dal singolo, perché erano collettive. «La loro bellezza è un’esauriente espressione del principio che dicevamo: libertà e comunione. Se una cosa fatta insieme è più bella, non c’è bisogno di aggiungere nulla».

L’incontro con il movimento ha cambiato il suo modo di guardare l’arte e il suo modo d’essere. Se ne accorge attraverso gli occhi della moglie. «Lei mi vede trasformato. Io ero sempre preoccupato, teso, rabbuiato. A volte angosciato. Invece la fede ti porta la giustizia vera, e ti rendi conto che le giustizie temporanee, quelle che tu vivi in maniera assoluta, sono solo il perimetro che vediamo noi: il mondo è ingiusto, anche la nostra esistenza può essere ingiusta, ma tutto è in una prospettiva più grande, più vasta e più vera».

Gli si è svelato in modo limpido iniziando a fare caritativa. «Sono molto pigro. Non avrei mai potuto svegliarmi all’alba la domenica per spingere delle carrozzine». Ma vedere gli amici della sua Fraternità che si davano da fare, non lo lasciava tranquillo. I confini sono saltati anche qui: «S’impara che la carità non è elemosina, ma amore. Un’esigenza del cuore». Alla sua esigenza ha risposto Annetta. Una creatura di più di cinquant’anni che è come una bambina, segnata dall’autismo. Lui va a trovarla e le suona il piano. Annetta non parla, eppure lui sa benissimo quando ha suonato bene o male, sa benissimo che lei ama Bach e non Chopin. «Ed ha ragione Annetta. Perché Chopin io lo suono male! Bach mi costringe ad essere rigoroso». Annetta non può interagire con le persone, ma con la musica si apre tra loro uno spiraglio. E in quello spiraglio c’è tutto il resto. Anche lei suona e compone, piccole fughe, in tempo reale, ed «è qualcosa di miracoloso».

La somma di tutti i volti, di tutte le persone incontrate in questo cammino, sino ad ora, «non fanno il movimento», conclude Rubin. C’è un Volto singolare dietro a tutto. «Letizia, e come lei anche altri, avevano comportamenti francamente inspiegabili. Non stavano in un parametro esagerato di generosità. Erano diversi, in un mondo dove regna il do ut des. C’era qualcosa di misterioso. E, nel tempo, ho avvertito una Presenza ulteriore. Quando sei davanti ad una cosa così, le tue categorie di riferimento saltano. È Dio che ti ha incontrato».