Ministero e mistero di un uomo

Il vescovo e teologo Alfonso Carrasco spiega perché la nostra vita «dipende» dal legame con il Papa. Che svela il fondo del nostro cuore (brani dall'intervista pubblicata su "Tracce" di marzo 2015)
Davide Perillo

Julián Carrón scrive che la nostra stessa esistenza personale, «la vita di ciascuno di noi», dipende dal legame con quell’uomo «in cui Cristo testimonia la sua perenne verità nell’oggi». Perché?
Il Ministero del Papa sottolinea una dimensione profonda e comune a tutti noi: l’esperienza cristiana accade sempre in rapporto con persone concrete, con delle presenze reali di uomini. Per esempio, don Giussani, o tanti altri che ci hanno accompagnato. È questo che ha reso possibile la nostra fede. Questo legame necessario con delle persone storiche forse è l’aspetto che ci stupisce di più del cristianesimo. A volte, magari, ci scandalizza pure. Ma è anche la dimensione più bella. Il Papa, in fondo, significa questo: indica l’evidenza che ci vuole una persona per aprirci di continuo una strada nuova verso Cristo. Certo, il suo rapporto con il Signore è unico: in lui c’è una garanzia data da Dio, che vuole che la Sua presenza permanga nella storia per sempre. Ma Pietro fa vedere proprio questo: è attraverso una presenza umana che Cristo ci avvicina nella storia.

Lei parlava di «scandalo». Ed è vero: in tanti casi, «che tutto abbia la sua consistenza nel legame con la fragilità di una singola persona» ci spiazza. Ma in definitiva, non è la sfida stessa dell’Incarnazione?
L’Incarnazione è Dio che si è fatto uomo. Noi a volte la vediamo un po’ meccanicamente, quasi come un principio filosofico. Ma l’Incarnazione è stata anche il morire per noi, l’istituire un’amicizia, il generare una comunione profondissima con l’uomo... È questo che si percepisce nel metodo della Chiesa. Ed è questo che il Papa rende possibile ora. Che il Signore si sia incarnato per unirsi per sempre con gli uomini, lo manifesta lui. Con la sua persona, ma al di là della sua persona. Sì, è la stessa sfida.

Ma perché facciamo resistenza a questo metodo che Dio ha scelto? In fondo è la strada più vicina a noi, la più accessibile che si possa immaginare per incontrarLo: passa da ciò che è umano e quindi adatto all’umano...
Alla fine, è perché facciamo resistenza a Lui. E allora tutto ci serve come una scusa, come un’argomentazione per tenerci stretti noi stessi. Poi, certo, bisogna tenere conto che c’è un cammino, una certa pedagogia: ognuno ha i suoi tempi e nulla avviene in modo meccanico. Il Signore ci sorprende sempre nella nostra vita. Però se lottiamo contro questo metodo così umano, in fondo è perché lottiamo con Lui. Alla Chiesa si rimproverano mille cose e ci si allontana da essa per mille motivi, ma alla fine lo si fa perché si prende posizione davanti al Signore. Se non fosse per questo, la Chiesa non importerebbe a nessuno.

Fa venire a galla l’atteggiamento più profondo che abbiamo di fronte alla questione più decisiva...
Fa emergere il fondo del nostro cuore, al di là di quello che magari diciamo esplicitamente.

E non è di questo che abbiamo paura, a volte? Proprio della nostra libertà?
Noi perseguiamo un nostro progetto. Ce lo facciamo su noi stessi, sulla realtà, sulla vita. E vorremmo la realizzazione di questo. Invece la pazienza l’abbiamo quando siamo felici della compagnia che ci ha avvicinato. Quando ci rendiamo conto della presenza del Signore, siamo grati di poter fare un cammino e di imparare ad ogni passo qualche cosa. La conversione, il cambiamento radicale, sta in questa semplicità di ringraziare il dono grande della presenza del Signore nella nostra vita.

Ma si può camminare senza seguire?
No. Se non seguiamo, in realtà siamo soli. Perseguiamo il nostro progetto, appunto, e siamo soli. Il disegno di un altro ci sembra sempre criticabile, e comunque è di un altro: a noi interessa il nostro... Per camminare dobbiamo essere sorpresi nel nostro cuore dal dono del Signore. E seguire.