La Festa dei Bambini a Bologna.

«Insegniamo solo ciò che amiamo»

Dalle tragedie del nostro tempo alle parole del Papa del 7 marzo. Ecco gli interventi di Mauro Magatti e Alberto Savorana alla XXXVIII edizione della Festa dei Bambini, dal titolo "La vita rinasce da un incontro"
Stefano Andrini

Se pensiamo di sapere già tutto corriamo il rischio di essere morti nello spirito e avvolti nella solitudine della nostra autoreferenzialità. Possiamo rimanere vivi solo se siamo disposti a lasciarci educare. Sempre». Questa la provocazione lanciata dal sociologo Mauro Magatti intervenuto, insieme ad Alberto Savorana, alla Festa dei Bambini di Bologna per parlare del genio educativo di don Giussani. La Festa, giunta alla trentottesima edizione, si è svolta nello storico parco dei Giardini Margherita con un titolo emblematico. “Sarà che mi hai guardato, come nessuno mai. La vita rinasce da un incontro”. Dopo la strage di Parigi, le condizioni tremende in cui si svolge il flusso migratorio dal Nord Africa, la persecuzione dei cristiani in diverse parti del mondo, l’inasprimento del dibattito su temi quali l’educazione, la famiglia e il matrimonio i promotori della festa si sono lasciati colpire dalle parole di papa Francesco in piazza San Pietro il 7 marzo scorso e hanno deciso che il tema doveva essere l’incontro, inteso come apertura e conoscenza dell’altro, condivisione dell’esperienza che ciascuno fa.

Sul tema del cuore Magatti e Savorana hanno dato vita ad un appassionante "ping pong". Giussani ha dedicato la vita all’educazione «non per indottrinare, non per convincere delle sue idee i giovani che incontra appellandosi al principio di autorità, ma per insegnare una strada, un metodo, per far fare loro un cammino così che siano loro a prendere coscienza di sé e a verificare se quello che dice è vero», scandisce Savorana. Una provocazione che il sociologo condivide e rilancia. «Quando citiamo “cuore” ed “educazione” innanzitutto stiamo parlando del cuore dell’educatore: che sia un insegnante, sia un genitore, un adulto, un giovane che inizia a lavorare, un sacerdote. Il cuore di cui stiamo parlando è innanzitutto il cuore di chi si trova in questa situazione di responsabilità, peraltro molto curiosa. Ci chiede di esercitare il ruolo di chi ha più esperienza, più conoscenza, ha visto più cose, è più avanti nella strada della vita, come dire una simmetria, che è destinata, tuttavia, al suo capovolgimento». E questa, insiste Magatti, «è una cosa che richiede cuore perché per un educatore l’obiettivo principale è che quel giovane, quel figlio, quel ragazzo vada oltre se stesso. Per un genitore la cosa più bella è che un figlio percorra delle strade che noi non abbiamo percorso. E così è per un buon insegnante: cosa può desiderare un buon professore se non che dalle cose che insegna ci sia chi le raccoglie, le trasforma, le riorganizza in un mondo in continuo cambiamento?». Non è facile, ovviamente. E Savorana ricorda a questo proposito il giudizio duro di don Giussani sugli adulti, coloro che avrebbero dovuto introdurre i giovani alla realtà, all’esperienza della libertà e della ragione: «A tutte queste generazioni di uomini non è stato proposto niente. Eccetto una cosa: l’apprensione utilitaristica dei padri». Nessuno ha comunicato ai giovani un metodo. E i risultati di questa mancanza si vedono nella cultura contemporanea. «Il cuore», insiste Magatti «richiede esattamente il contrario di chi considera la conoscenza, l’esperienza, un possesso. Noi siamo talmente condizionati che pensiamo che per dare, bisogna essere particolarmente buoni. Quando in realtà il dare è un’azione originaria dell’essere umano. È il dare dell’educatore, è il dare del seminatore nella speranza che vada oltre se stesso. L’arco della famosa poesia di Gibran che permette al figlio di essere lanciato in avanti».

Per questo don Giussani si cimenta nella grande sfida dell’educazione pur consapevole che l’azione in questo campo è «rischiosa perché è abbandonata a una libertà fragile. E qui», spiega Savorana, «uno capisce il limite della propria persona e l’insondabilità del mistero dell’altro. Queste percezioni alimentano un’umiltà che non fiacca minimamente l’entusiasmo, che non mette minimamente in questione la passione, ma che rende tale entusiasmo e tale passione vera proposta e non tentativo di accattivarsi l’altro».

Per troppo tempo l’educazione è stata questo: il tentativo di convincere l’altro delle proprie idee. «E questo per don Giussani è profondamente diseducativo, perché fa violenza a quel nucleo misterioso dell’altro che è la sua libertà». Il sociologo propone una ulteriore conseguenza: «L’educazione c’entra col cuore laddove noi siamo strumento, perché chi viene dopo di noi possa intuire attraverso quello che facciamo e quello che diciamo che fondamentale per gli esseri umani è amare, cioè spendere la propria libertà per qualcosa che vale la nostra vita. Questo è il contenuto profondo dell’educazione. Noi insegniamo solo ciò che amiamo. E l’unica passione che possiamo trasmettere è questa: che vale la pena amare la vita. E che se la vita si ama, richiede anche impegno e conoscenza. È un mettersi in cammino. L’affezione creativa è l’immagine del Dio che i cristiani hanno, senza affezione creativa perché mai avrebbe dovuto creare l’uomo?». La considerazione della persona e della sua libertà è un aspetto di grande attualità nella proposta di don Giussani, conferma Savorana. Come muovere la libertà, destare l’interesse di uno studente a scuola, vincere quella stanchezza, quella apparente indifferenza che sembra una nota dominante della vita oggi. «Perché la libertà», ribadisce Savorana, «può essere conquistata solo da qualcosa che la muove, non per una obbedienza formale, per una direttiva imposta. “Ma quello che state facendo, cosa c’entra con le stelle?”, domandò don Giussani a una coppietta che si baciava per strada all’inizio degli anni Cinquanta. Anche oggi è la domanda centrale: perché il particolare scopre il suo significato solo nel rapporto con il tutto».

Di fronte al crollo delle evidenze Magatti si sofferma, infine, su un fenomeno tipico del nostro tempo. «Negli ultimi secoli abbiamo imparato a diffidare dell’esperienza, la cerchiamo, ma rimane a livello del nostro particolare, contemporaneamente ci fidiamo sempre di più dell’esperimento. Che assume il valore di una certezza, anche perché le sue conseguenze le tocchiamo con mano. Non circola più, invece, l’esperienza che rimane qualcosa di instabile e precario. C’entra col nostro particolare, ma non diventa più rete. Succede negli ospedali dove non ci sono più spazi per la condivisione della malattia e della sofferenza. Dove il rischio è quello di diventare solo officine dove si sostituiscono i pezzi di ricambio. Ma anche in famiglia accade una cosa analoga: qui abbiamo ridotto le relazioni a esperienze soggettive e momentanee che tengono solo quando si sta bene insieme». La strada per Magatti è obbligata: «C’è bisogno di lavorare sulla esperienza per farla tornare un tessuto sociale. E qui giocano un ruolo di primo piano i testimoni. Non persone necessariamente straordinarie, ma capaci di riconoscere che nella loro vita sono capitate delle cose che meritano di essere raccontate. A tutti».