Il poeta Mario Luzi.

«Stupore d’ultramattutina luce»

Sabato 28 febbraio sono dieci anni dalla morte di uno dei più grandi poeti del Novecento. Un uomo che visse come tanti. Ma rispondendo all’assillo di una chiamata (da "Tracce", ottobre 2014)
Fabrizio Sinisi

Si può dire, per un felice paradosso, che i punti più alti dell’opera di Mario Luzi siano quelli in cui “si contraddice”: gli stati di crisi, i momenti d’emergenza della sua poesia. Luzi nasce nel 1914, giusto cent’anni fa, e muore nel 2005: il suo primo libro, La barca, è del 1935; il suo ultimo, Dottrina dell’estremo principiante, del 2004: quasi un intero secolo separa l’esordio dall’epilogo di un autore che ormai più nessuno fatica a riconoscere come uno dei più grandi poeti italiani del Novecento. Ma c’è nell’opera di Luzi appunto questa peculiarità: quella di ricadere - periodicamente, provvidenzialmente - in un’urgenza di rinnovamento. Sono i tratti in cui la sua poesia letteralmente cambia, espone un contraccolpo, si fa portatrice di maggiore novità.

È un paradosso tanto più interessante se si pensa che la biografia di Luzi è, per molti aspetti, quella di un uomo come tanti: non ha l’avventurosità di un D’Annunzio o di un Pasolini né la tragicità di Pascoli o di Campana; la sua è una vita di insegnante (prima liceale, poi universitario) e di riconosciuto scrittore, sì rispettato e seguito, ma solo nell’ultima parte della vita - quando a lungo ci si aspettò per lui il conferimento di un Premio Nobel poi mai ottenuto - realmente celebrato; vissuto pressoché sempre nella sua Firenze, città amatissima, centro, sfondo e metafora di gran parte del suo immaginario, delle sue figure.

Il più nudo dei misteri.
Si specifica questo perché sia chiaro che il percorso di Luzi non è straordinario per via di più o meno rocambolesche circostanze esterne, ma per la lealtà con cui risponde all’assillo di una voce, di una chiamata. La sua poesia documenta instancabilmente come l’ordinaria vita delle cose costituisca, di per sé, un appello irrevocabile. Di qui, perciò, la vitalità delle sue “rotture”: Luzi giunge più volte alla percezione di come il linguaggio conquistato fino a quel momento non basti più - e servano quindi altri modi, altri occhi, per continuare a dire ciò che più di ogni altra cosa conta: «Il filo perduto dell’avvenimento». E l’avvenimento è, innanzitutto, la vita stessa: «L’esserci, il primo / e più nudo dei misteri».

La prima di queste svolte è all’altezza del 1947. Fin dal 1935, anno della Barca, Luzi era stato unanimemente riconosciuto come il caposcuola del movimento ermetico fiorentino, modello di una lingua perfetta, densissima, in una fissità che toglie il respiro: «L’anima assente, ovunque mi rivolga / è un rigore che assidera le forme / nel vuoto dello sguardo». Ma, nel 1947, uno scarto. Su cosa, biograficamente, lo abbia scatenato, Luzi rimarrà sempre reticente. Sappiamo del ritrovato amore con la moglie Elena, del rapporto col figlio Gianni. Ma ciò che accade qui sembra precedere questi fatti, anzi, farsene condizione: qualcosa di urgente e misterioso insorge nello sguardo, e questo qualcosa è salutato come un Tu, come un evento di totale riapertura.

Quaderno gotico è il documento di questo scatto: «Camminare è venirti incontro, vivere / è progredire a te, tutto è fuoco e sgomento». «Tu chi sei / che aspettavi invisibile, appostata / a una svolta dell’età / finché fosse la tua ora? Ti devo / questo tempo di gratitudine / e d’altrettanto dolore. (...) C’è da piangere a pensare / come ho sciupato questa lunga attesa / con tante parole inadeguate, / con tanti atti inconsulti, irreparabili / e ora ferito dico non importa / purché il supplizio abbia fine». È la scoperta di questo tu che inaugura in Luzi tanto il dramma di vivere quanto lo stupore di un albeggiare di senso, lo scoppio di un grido di riconoscimento: «Sei tu, l’attesa non è stata vana».

La seconda grande stagione della vicenda luziana avviene alla fine degli anni Sessanta. Gli intellettuali di sinistra del periodo, Pasolini in testa, gli rimproverano l’assenza di coinvolgimento civile, di impegno storico con i fatti del presente; lo accusano di un eccessivo, elitario distacco. E Luzi risponde con una scelta, definitiva e solo apparentemente banale: quella della realtà, della sua lotta. Non vuole più abitare sul margine, nella torre d’avorio della letteratura, ma scendere in campo, entrare in un corpo a corpo con le cose. Ma il livello su cui condurre questo dialogo non è quello che la cultura marxista del periodo si aspetta. Luzi risponde in maniera inedita, imprevista: con un libro d’amore. Ma di un amore capace di illuminare tutte le pieghe del presente. L’orizzonte di lavoro storico, per Luzi, sarà quello di approfondire, assecondare e lasciar entrare quel Tu già intravisto nel Quaderno gotico, e che qui dirompe.

L’esito di questa altissima scommessa è la pubblicazione, nel 1971, di Su fondamenti invisibili: «Finché una luce senza margini d’ombra / illumina l’oscurità del tempo, / risale ad uno ad uno i suoi tornanti / e m’accorgo di te entrata nella mia vita / neppure mi chiede da che parte e quando / e se lo sei o se invece non sei sorta / su dalla sua profondità di notte in notte affiorando. / - Che farà qui - mi dico mentre splendi / e sorridi un sorriso anche mio - forse / veglia su di me. Forse affina da sempre il mio pensiero / occupato da troppe parvenze e monco - / e ti guardo come sei, già nota / sebbene mai prima d’ora veduta / e stupisco che l’amore abbia questo volto interno».

Il perno del desiderio.
È questo contraccolpo a far esplodere insieme il canto e la confessione. Una sorgività che scaturisce spontanea al cospetto dell’avvenimento: «Ho lasciato per te la mia cattività e il mio regno, / solitudine inquieta / che affinava la sua pupilla / scrutando il cielo sul filo dei tetti. // Tu che avevi in te il mio bene / cui ero andato incontro, ma poco / camminando da solo / e inciampando nella mia ombra // tu che me lo porti in dono / e non vuoi né congedo a occhi bassi dal passato / né abiura, né pentimento / e sorridi profonda / in me più di me stesso e risplendi, // non ti fermare sulla soglia: / nulla di degno posso darti in cambio, / entra, prendi possesso della casa, / nei muri, nelle fondamenta».

È un amore che s’impone - con la ferma dolcezza, la tersa autorevolezza delle cose vere - come la chiave del presente e della storia, il perno del desiderio, il segreto della «natura del mondo»: «Viene avanti, si sfila dal silenzio delle valli lei, la lince, / punta là dove anch’io / come altri che non lo sanno / figgevo il desiderio, alla sorgente. // Non avrei conosciuto la mia sete / se non fosse per lei che portata dal gorgo / di reciprocità l’impara e me l’apprende. / Non l’avrei conosciuta. E poco, / poco saprei della natura del mondo». Il protagonista e l’interlocutore della storia, dice Luzi, è questo tu: «Punto vivo, primavera del mondo».

Luzi non si ferma neanche qui. A partire dal 1985, con il Battesimo dei nostri frammenti, e nell’amicizia, fondamentale e decisiva, con don Fernaldo Flori, sacerdote a Pienza e punto di riferimento di tutti i suoi ultimi anni, comincia una nuova, ennesima stagione: scrive opere a ritmi sempre più serrati, una dopo l’altra, come se quel “tu” inaugurato tanti anni prima avesse ormai preso le redini del dialogo e incalzasse, e il poeta stesso faticasse a stargli dietro. «Di che smanio ancora?», si chiede, «Di che non sono sazio?». Ma che stupore poi, dentro quella domanda, in tutta la fragilità del proprio essere, tornare ad incontrarlo: «È, lui. / È / ed accade, / accade continuamente. / È nel suo accadere, / sì, / lo è unicamente / e rode / e polverizza / la metafora / di sé, / distrugge il proprio simbolo / lui, abrupto ed assoluto evento / sempre, / sempre, / in ogni istante / al suo cominciamento»>.

Il suo invito.
Ed è con la stessa commossa gratitudine, la stessa radicale umiltà verso il fuoco dell’evento («Che ho mai potuto dire / di te, maestà del mondo?», si chiede in uno dei suoi ultimi versi) che Luzi continua oggi a rivolgerci intatto, anzi più dirompente, il suo invito e la sua sfida: «Guarda. / Guarda bene. / Ancora. / Fino in fondo. / Non ritrarti, non coprirti con le mani / il viso, non comprimerti le palpebre, / non stornare il volto. (...) / La mischia / non è spenta, il sì e il no del mondo / s’incalzano e si affrontano / nel gorgo della vorticosa danza». Tenere gli occhi aperti nelle cose, anche nel male, sembra dirci, si può soltanto se quel tu è ancora qui, e accade - se ti ritrovo ancora, tu «luce nella luce, / musica in fondo alla musica».