Un quadro di Qi Baishi.

Su Mo Yan non usiamo stereotipi (occidentali)

Una celebrità in Cina, poco noto qui da noi. Dove le categorie per leggerlo sono le nostre. Pro regime? Dissidente? Ma dietro a lui c'è un mondo. A noi sconosciuto. Basta guardare la top ten dei pittori più venduti...
Luca Fiore

Il premio Nobel per la Letteratura quest’anno va a Mo Yan, al secolo Guan Moye. È uno dei pochissimi scrittori cinesi ad aver conquistato notorietà fuori dai confini del suo Paese. Io non ne avevo mai sentito parlare. E sono abbastanza sicuro di non essere il solo... Ma in fondo, se il Nobel ha un’utilità è proprio quella di far conoscere al grande pubblico scrittori di valore. In patria Mo Yan è una celebrità. E noi fino a ieri non lo sapevamo. Scopriremo i suoi romanzi. Capiremo se è davvero grande come dicono. Ma se è vero quello che si leggeva oggi sul Corriere della Sera - «Mo Yan ha influenzato gli sviluppi della letteratura cinese negli ultimi venti, trent’anni» - questo riconoscimento ci ricorda una cosa: dell’universo culturale artistico del Paese più popoloso del mondo conosciamo poco o nulla. E se qualcosa conosciamo, di solito, è qualcosa nel quale riconosciamo tratti del nostro modo di pensare o vedere. Lo si vedeva questa mattina sui quotidiani italiani. Mo Yan: grande scrittore però sostenitore del regime, ma anche critico di alcune malefatte di Pechino (la legge sul figlio unico). Come se il problema fosse: è un intellettuale organico o no? "Comunista" o "riformista"? Sembra che questa sia l’unica chiave di accesso alla figura e all’opera dello scrittore. Poco si è riuscito a dire sul perché sia rappresentativo della cultura cinese. Di cosa abbia di propriamente cinese.
Non è un caso, infatti, che l’ultimo premio Nobel a un cinese sia quello del 2000 a Gao Xingjian: scrittore residente a Parigi che ha ottenuto la cittadinanza francese. Non è un caso neppure che l’artista cinese più famoso in Occidente sia Ai Weiwei. A contribuire al suo successo c’è certamente la sua militanza antiregime, ma anche la sua “interpretazione cinese” dell’arte concettuale che ha conosciuto nel suo periodo newyorkese. I collezionisti occidentali ne vanno pazzi. Ma in patria?
Nel 2010 il sito d’arte artprice.net stilò una classifica degli artisti più venduti all’asta. Al primo posto c’era Picasso, al terzo c’era Andy Warhol. Al secondo c’era Qi Baishi, un pittore cinese morto nel 1957 e sconosciuto da noi. Ciò che stupisce non è la sua presenza in classifica (tra i primi dieci i cinesi erano quattro), ma che le opere di Qi non abbiano nulla a che vedere né con Picasso, né con Warhol: a prima vista le giudicheremmo degne di un mercatino delle pulci a Chinatown. Eppure i nuovi tycoon di Pechino e Shanghai spendono cifre astronomiche per averlo.
Oggi la gran parte degli oggetti di uso comune presenti nelle nostre case sono fabbricati in Cina. La società, si dice, è globalizzata. Eppure la distanza tra il nostro gusto per il bello e quello dei cinesi resta enorme. La scoperta di Mo Yan ci ricorda questo: è meglio non dare per scontato che quel che conosciamo della Cina sia davvero quello che più la rappresenta. Anche oggi occorrono avventurieri per entrare davvero in quel mondo. E di Matteo Ricci non ce ne sono molti in circolazione.