La scrittrice Giorgia Coppari.

«La scrittura rafforza la mia fede»

Giorgia Coppari insegna in un liceo marchigiano. Dopo un racconto scritto in una sera, si accorge che in tanti stavano aspettando una storia così. Lei compresa. Nascono in questo modo "La promessa" e "Qualcosa di buono": «Una sfida continua, ogni istante»
Alessandra Stoppa

«Mi chiedo anch’io com’è accaduto. Sono madre e insegnante e fino a qualche anno fa non avrei mai immaginato quel che c’è oggi». La fila per gli autografi alle presentazioni dei suoi libri, per esempio. È una delle cose che la colpiscono di più. «Quando siamo toccati da un libro, da una storia, da un personaggio, sentiamo il bisogno di conoscerne l’autore, la fonte. Succede a tutti: "Che bello! Di chi è?". Pensi quanta attesa c’è in noi di conoscere l’Autore della nostra vita».
Giorgia Coppari, 53 anni, marchigiana, insegna Lettere alle superiori, ma negli ultimi anni si è ritrovata scrittrice, pubblicando vari racconti e due romanzi: La promessa (oggi alla terza edizione per Itaca e proposto ai ragazzi in molte scuole) e Qualcosa di buono (Itaca, 2012). Pur avendo da sempre la passione per la scrittura, ha iniziato a prenderla sul serio solo da pochi anni.

Com’è accaduto?
Mi ritrovavo a scrivere la sera, quando i bambini andavano a letto ed io avevo messo a posto la cucina. Infatti, il primo racconto, che ho scritto il giorno in cui la mia famiglia si è dimenticata che era il mio compleanno, si intitola Tutto a posto (pubblicato in Qualcosa di buono; ndr): perché le donne sono abituate a rimettere sempre tutto a posto, ma c’è un’attesa grande in questo mettere ordine, come nelle cose anche più piccole che facciamo. Però, quando ho iniziato a dare spazio e tempo a questa passione della scrittura mi venivano i sensi di colpa: mi chiedevo se fossi impazzita. Invece, mi sono trovata a fianco degli amici e mio marito che hanno valorizzato il mio desiderio. I racconti hanno iniziato a girare tra gli amici, così ho visto che non era più solo una cosa mia. Anche loro la aspettavano. E questo mi ha spinta a continuare. Finché uno di loro non mi ha detto: «Ma perché non scrivi un romanzo?». Io non avevo nemmeno idea di come si pubblicasse un libro, ma passo a passo è nato La promessa. La storia, ambientata nel Settecento, di un ragazzino di nove anni che parte dalla campagna per andare a costruire navi ad Ancona, con lo scopo di conquistare la bambina che ama.

Com’è nata questa storia?
Ero stata colpita da un compagno di scuola di mia figlia. Si era innamorato di lei all’asilo e l’ha corteggiata a lungo, da quando aveva tre anni fino ad undici. Con grande passione, tenerezza, dedizione. Con la serietà di chi è colpito da una bellezza. Per me, è stata la testimonianza di com’è grande il cuore dell’uomo e ho pensato che la sua esperienza fosse degna di un romanzo. In quello stesso periodo, mi era stato chiesto di fare una visita guidata al Duomo di Ancona e, preparandomi, ho scoperto il prodigio della Madonna del 1796, che è il “sottofondo” di tutto il libro. Durante l’occupazione napoleonica, l’immagine della Vergine aprì gli occhi sulla folla che era corsa ai suoi piedi a chiederLe la liberazione.

Che cos’è per lei la scrittura?
Non è mai stato un passatempo o un’evasione. Al contrario, è un guardare con più attenzione la realtà, il mio quotidiano. È una ricerca ad andare più a fondo dell’esperienza, ad interrogare il nostro essere su questa terra, il mistero che ci fa essere vivi, che è da indagare in ogni modo. Io non voglio dare per scontato nulla: dal fatto che il mio cuore batte - e non mi è dovuto - al fatto che ogni istante è un passo verso l’eternità.

Come costruisce un personaggio?
Non lo costruisco. Lo incontro e poi lo scopro.

Ma come?
La scrittura è un dialogo continuo con il mistero. Nei personaggi è evidente: non li conosci e soprattutto devi seguirli. Serve pazienza, perché vengono formandosi tra le tue mani. I dialoghi tra loro, cosa decidono di fare, cosa provano, non sono delle idee a priori che ho, emergono man mano mentre vivo con il personaggio. Come è successo con le tre donne di Qualcosa di buono. Marta, Irma e Laura, che nel dramma diverso che vivono fanno i conti con il bisogno che ogni giorno accada qualcosa. Qualcosa di buono, appunto. Le ho seguite nel loro cammino, senza sapere dove le avrebbe portate.

Una delle esperienze più presenti nei suoi libri è l’attesa.
L’attesa che c’è in tutti noi. Il desiderio di essere uomini con tutto il bisogno del nostro cuore. Ma mi rendo conto che per vivere è necessario scoprire che questa grande attesa è risposta nell’istante, ogni istante. Se uno “ha gli occhi” la realtà è una risposta continua. Per esempio, ho girato tante scuole, medie e superiori, dove il libro è stato proposto come lettura, e mi sorprende come i ragazzi si appassionino.

Cosa vede in loro?
Che desiderano la fedeltà. E la lotta, la caparbietà che c’è in Luigi (il protagonista de La promessa; ndr). Io glielo chiedo: cosa vi piace? E loro: la fedeltà. E poi: il prodigio. La presenza straordinaria che sottende tutta la storia, del libro e di ogni uomo. Nell’incontro con loro è evidente il bisogno che c’è di un amore che sia preso sul serio, di persone vere con se stesse. I ragazzi vogliono sapere che vale la pena fidarsi del cuore, anche quando fa tremare, e della vita. Meglio, che vale la pena percepire la vita per quello che è: una promessa. Per questo dico che la scrittura rafforza la mia fede, perché è una sfida continua: o ci si fida del proprio cuore, oppure no.

La scrittura ha cambiato il suo mestiere di insegnante?
Mi sta cambiando lo sguardo. Me lo rende più attento, e questo lo vedo soprattutto in classe. Mi introduce una compassione nuova per i ragazzi. È come dice Wilbur Smith: «Chi scrive ha passione per l'uomo». È vero, si patisce insieme.