La copertina del libro.

L'esperienza elementare, «una giustizia che si fa vita»

Un seminario sul libro di quattro costituzionalisti per scavare sulla fondazione del diritto nell'epoca dell'individualismo. La riflessione giuridica ha bisogno di un punto esterno. Ma in che rapporto sta questo «altro» con la legge?
Ubaldo Casotto

Roma, Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto, Camera dei deputati, martedì 10 luglio 2012. Tre filosofi e un giurista presentano Esperienza elementare e diritto, il libro di quattro costituzionalisti: Andrea Simoncini, Lorenza Violini, Paolo Carozza e Marta Cartabia (membro della Corte Costituzionale), a cura della Fondazione per la Sussidiarietà, edito da Guerini e Associati. Carozza, a dispetto di nome e cognome, è americano, ed era l’unico assente (giustificato) tra gli autori. Nel mondo giornalistico circola una vulgata su due grandi firme che fanno a gara a chi presenta più libri senza averli letti. Vera o no che sia, non è stato questo il caso di Costantino Esposito, Eugenio Mazzarella, Francesco Viola e Franco Modugno; raramente s’è assistito a un dibattito così denso e pertinente rispetto al tema del libro: quale fondazione per il diritto nell’epoca della proliferazione dei diritti umani?

Esposito, ordinario di Storia della filosofia a Bari, ha esordito con Aristotele («Ogni scienza deve ricevere il suo principio da altro», non se lo dà da se stesso) ringraziando quindi gli autori per «la serietà e semplicità con cui seguono la fonte altra della loro scienza, che non si può risolvere nel diritto ma senza la quale il diritto diventa inintelligibile», perché «il diritto non si autofonda, ha bisogno come esigenza interna di capire qual è il punto altro per cui può essere se stesso». Citando la prefazione di don Julián Carrón, Esposito ha reso esplicito quel punto «esterno al diritto, ma ricercato dall’interno del diritto, come sua necessità»: l’esperienza elementare come esigenza di giustizia. In che rapporto sta - si sono chiesti gli autori - questo «altro» con la scienza del diritto? Ora, «la riflessione giuridica discende direttamente dalla concezione di uomo che si ha, ma assistiamo in questi tempi al tramonto un’antropologia per cui il diritto si fondava sull’esistenza e sul valore della persona e se ne afferma una contraria per cui la persona, invece che essere fonte dei diritti ne è il risultato»; quali problemi e quali sfide pone questa nuova situazione antropologica al diritto?

Alla domanda ha risposto Eugenio Mazzarella, deputato del Pd e docente di Filosofia all’Università Federico II di Napoli. «A chiedere nuovi diritti - ha detto - più che la persona sembra essere l’individuo, ma i diritti dell’individuo, così costruiti nel diritto, non sembrano conseguirne davvero la tutela come pure vorrebbero» perché non colgono «la matrice relazionale e comunitaria dell’individuo che si è storicamente e concettualmente tradotta nell’idea di persona». La conseguenza di un diritto costruito su «un individuo scorporato dal suo essere persona» è una proliferazione e un’assolutizzazione dei diritti che non ottiene lo scopo che dichiara: tutelare effettivamente la persona.

Il carattere relazionale è messo in evidenza dalla semplice constatazione che «quando chiedo il rispetto di un mio diritto, chiedo qualcosa a qualcuno». L’iper-individualismo in cui nascono le nuove richieste trascura un criterio di ragionevolezza dei diritti, cui invece richiama «la nozione di esperienza elementare teorizzata da don Giussani come criterio esterno di giudizio di questa ragionevolezza». È questa «impronta interiore, che è il cuore buono dell’uomo come persona degna, che sembra meno marcare il mondo di cui facciamo esperienza», mentre «l’esperienza elementare può giocare un ruolo di fonte di giustizia che evita al necessario diritto positivo di scadere nel positivismo giuridico». La situazione odierna - ha osservato a questo punto Esposito - pone il diritto come ordine legislativo a fondamento della giustizia e non la giustizia come fondamento del diritto, contraddicendo un’esperienza umana elementare, l’esigenza del giusto. Come riannodare questo rapporto?

Francesco Viola, docente di Filosofia del diritto a Palermo, ha voluto rassicurare Esposito: «Anche i positivisti sono d’accordo nel dire che il fine del diritto è la giustizia, il diritto è una promessa di giustizia», il problema è se la giustizia è interna o esterna al concetto di diritto, se l’essere giusto si aggiunge al diritto o se ne è l’essenza, se, insomma il diritto, fatte le sue affermazioni teoriche, possa fare a meno della giustizia. E qui sorgono le differenze. Viola ha citato la teoria del «minimo etico», secondo la quale il diritto ha bisogno della giustizia, ma solo da un certo punto in poi. Ma se questo è evidente per casi di macroscopica ingiustizia, come l’Olocausto, per cui il diritto cessa di essere tale, è più difficile stabilire questo discrimine nella vita ordinaria: «Il diritto alle ferie pagate è di serie A o di serie C? Provate a spiegare che non è un diritto fondamentale a chi l’ha sempre percepito come tale».

Viola ha quindi spiegato come una nuova concezione di diritto naturale salvi il giuspositivismo quando questo si esprime in leggi fondamentali come le costituzioni, «che sono artificiali come le leggi ordinarie, ma in modo diverso, perché la loro origine è culturale. La loro artificialità (sono pur sempre fatte da uomini) cerca di comprendere in qualche modo la natura ed è per questo fondativa della convivenza civile perché afferma dei principi e non solo delle regole». L’elemento di novità del giuspositivismo odierno, per Viola, è che al suo interno c’è un’istanza critica, uno può affermare nuovi diritti, ma non basta la volontà di farlo, deve renderne ragione. In questo quadro come opera l’esperienza elementare? «Inanzitutto mi fa riconoscere l’umano, cioè chi è ammesso al discorso comune. E, in secondo luogo, permette di costruire la società non intorno a pretese individualistiche, ma su un ordine delle libertà che salva le relazioni umane fondamentali».

Uno degli aspetti più provocanti del libro è il giudizio sulla cultura dei diritti che si trasforma nel nuovo volto del potere. Chiamato a rispondere a questa provocazione, il professor Franco Modugno, docente di Diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, ha voluto premettere una distinzione: «O cerchiamo di elaborare una teoria della giustizia come esperienza elementare o rendiamo l’esperienza elementare una teoria della giustizia. Nel primo caso si tratta di spirito, di vita. Nel secondo caso ci troveremmo davanti a una nuova formula. Bisogna stare attenti a non ridurre l’esperienza elementare a dottrina». L’esperienza elementare, ha detto Modugno mostrando una lettura approfondita del libro e sottolineando anche ciò che lo differenzia dagli autori, «è insieme un contenuto e un metodo ed è questo che la rende interessante» come criterio di giudizio su ciò che si prova. L’esperienza elementare - ha continuato - «non fornisce un elenco minimo di valori condivisi, ma chiama in campo un soggetto» e questi può, in virtù di essa, criticare anche i diritti umani. Pur non condividendo in toto il giudizio di Marta Cartabia sulla proliferazione e l’assolutizzazione dei diritti, Modugno ha centrato la chiusura del suo intervento sul concetto di dignità, «che possiede un plusvalore, non è un diritto come credono in certe corti europee», riportandola direttamente all’esperienza elementare, che ha definito «la chiave che apre la porta di accesso alla dignità».

Chiamata in causa, Marta Cartabia ha spiegato la natura del lavoro degli autori del libro: «L’esperienza elementare non è una teoria della giustizia, poniamo dei problemi che noi abbiamo incontrato come enigmi inspiegabili nel corso del nostro lavoro e per affrontare i quali è stato necessario uscire dai confini della nostra materia. Come ha detto il professor Modugno, è una giustizia che si fa vita, perché ci siamo resi conto che non si può limitare la degenerazione dei diritti con un appello a una nuova moralità, cioè a un elenco di doveri, ma ponendo una nuova domanda: che cosa vuole veramente l’uomo quando avanza questi nuovi diritti? Che cos’è veramente questa esigenza di giustizia? Il nostro è un primo passo, cui deve seguire ancora molto lavoro». Problematica la chiusura di Esposito: «Le cose decisive e grandi della nostra vita sono sempre state anche giuste? Cioè, erano dovute o sono state imprevedibili? O forse anche il giusto, il dovuto, si origina da qualcosa di non dovuto, di gratuito? Che il segreto della giustizia sia la gratuità?».
Effettivamente, il lavoro non manca.