Suonatrice di liuto, Johannes Vermeer, 1664 circa.

Vermeer, il suo "qui" è una vastità

Dal 27 settembre a fine gennaio Roma ospita otto tele del grande artista olandese. Van Gogh, tra i primi, ne ammira l'uso dei colori. Per Longhi è nella scia di Piero della Francesca. Il suo segreto? Ungaretti provò a svelarlo con la poesia
Giuseppe Frangi

È un’occasione da non perdere quella che viene proposta a Roma alle Scuderie del Quirinale: la mostra di Vermeer, per quanto poco interessante dal punto di vista dello sviluppo di conoscenze del pittore (come gran parte delle mostre organizzate oggi in Italia: sono mostre pensate solo con l’obiettivo di fare incassi), è a suo modo eccezionale perché raccoglie otto tele del maestro olandese. Radunare otto opere di Vermeer significa radunare oltre il 20% di quello che di lui si conosce; e soprattutto radunarle tutte da Paesi esteri, visto che in Italia non è conservata nessun suo quadro. Quindi l’occasione è buona per conoscere questo grande pittore che stregò Marcel Proust.

Vermeer è personaggio misterioso sotto ogni profilo. È misteriosa la sua pittura. Ma è densa di misteri e di zone oscure anche la sua biografia. Nato da famiglia calvinista nel 1632 a Delft (ma gli venne dato un nome latino, Johannes, e non Jan all’olandese), sposò Catharina Bolnes, figlia di una ricca famiglia cattolica, andando ad abitare in casa della suocera Maria, in quel quartiere di Delft che era stato ribattezzato l’“Angolo dei Papisti”. Ma aldilà di queste scarne notizie nulla sappiamo circa una sua ipotetica conversione. Ebbe una vita falcidiata da problemi economici, nonostante potesse contare sulle ricchezze della famiglia della moglie. E quando morì nel 1675, poco più che 40enne lasciò quasi più figli, dieci, che quadri: quelli a lui attualmente attribuiti sono infatti solo 36 e su alcuni incombono anche incertezze.

Lasciò anche molti debiti, che la moglie Catharina tentò a volte faticosamente di saldare con le opere del marito: infatti non sembra che Vermeer godesse allora neanche lontanamente della fama assoluta che ha conquistato ai giorni nostri.
Una fama che è arrivata in realtà molto tardiva se si pensa che tra i primi ad accorgersi della sua eccezionalità fu, oltre due secoli dopo un altro olandese, Vincent Van Gogh, che ne parla così in una lettera del 1877 a Emile Bernard: «Conosci un pittore di nome Jan van der Meer? Ha dipinto una signora bella, molto distinta che è incinta» (il quadro è conservato ad Amsterdam). Seguono parole molto ammirate per il suo uso libero dei colori, paragonato a quello introdotto da Velasquez. Ma come si deduce dal tono della lettera, Vermeer a quei tempi era poco più che uno dei tanti. Sarebbe stato in effetti l’Impressionismo a consacrarlo come precursore di una pittura moderna e libera, in particolare grazie a quello straordinario capolavoro, che sembra già dipinto en plein air che è la Veduta di Delft, custodita oggi all’Aja (a Roma si vedrà un quadro che “in piccolo” richiama la Veduta, intitolato infatti La piccola strada, prestato dal Rijksmuseum di Amsterdam).

Il mondo di Vermeer è un mondo molto circoscritto, quasi chiuso dentro i muri del suo studio o tutt’al più entro i muri della sua città, Delft. Ma a differenza degli altri maestri d’interni che dominavano la pittura olandese di quegli anni (tutta pre-borghese e un po’ claustrofobica, all’opposto della grande arte popolare e pubblica che caratterizzava in quegli stessi anni la Roma di Bernini), in Vermeer lo spazio piccolo si capovolge in qualcosa di sorprendentemente sconfinato. Lo intuì bene il giovane Roberto Longhi che studiando Piero della Francesca evocò il nome di Vermeer come uno degli artisti che nella storia della pittura europea meglio ne comprese la lezione. In realtà difficilmente Vermeer aveva potuto conoscere Piero, visto che il suo viaggio in Italia resta poco più che un’incertissima ipotesi. Ma le consonanze di fondo a volte si stabiliscono senza bisogno di contatti diretti.

Tra i quadri presenti a Roma c’è la bellissima tela prestata dal Metropolitan di New York (l’unico museo al mondo a vantare ben cinque opere di Vermeer) che rappresenta la Suonatrice di liuto, un’opera emblematica per capire la misteriosa grandezza dell’artista olandese.
Nella piccola tela si vede un interno olandese magnificamente invaso da una luce soffice. La donna se ne sta seduta al tavolo con lo strumento musicale tra le mani; dietro di lei una grande carta geografica sembra già evocare un macrocosmo che va ben oltre l’orizzonte di quel microcosmo. In tutto questo universo millimetricamente tenuto sotto controllo dall’artista e tutto vibrante di una luce piena di silenzi, c’è un particolare che rompe tutti gli equilibri: ed è lo sguardo della suonatrice, che è sollevato dallo strumento ed è sorprendentemente attratto da qualcosa che noi possiamo solo immaginare. È grazie a questo particolare che Vermeer accende di una imprevista attesa tutta la sua tela. È la tensione calma di quello sguardo che determina e dà senso al resto del quadro. Succede così in tutte le grandi opere di Vermeer, dove il contesto è sempre funzionale all’infinito che vibra nello sguardo o nei gesti sospesi dei protagonisti. Come accade in quell’altra tela dove la Suonatrice di spinetta (proveniente da una collezione privata) è collocata in un ambiente nudo, abitato solo dalla luce che si stende vibrante sul muro spoglio. Lei è rivolta verso di noi, come se il tran tran quotidiano fosse stata attraversato da una chiamata. Un attimo normale, ma carico di una densità che lascia chi guarda con il fiato sospeso: cos’è accaduto? Che cosa accadrà?

Difficile carpire il segreto di questi capolavori, ma una chiave ce l’ha dà Giuseppe Ungaretti, altro grande innamorato dell’artista olandese. Aveva scritto Ungaretti, che se la pittura di Vermeer è tutta un “qui”, «mi pare che quel “qui” sia una vastità».

“Veermer. Il secolo d’oro dell’arte olandese”
27 settembre 2012 - 20 gennaio 2013
Scuderie del Quirinale
Roma