Mathilde Gaussin Zindo.

GAUSSIN ZINDO Il Mistero e le “tauromacchine” di Mathilde

Dal 14 febbraio al 7 marzo, s'è svolta la mostra della giovane scultrice francese. Opere potenti e cariche di dramma, come il Minotauro, o il Centauro. Ma anche piene della certezza di un incontro
Rodolfo Balzarotti

Sabato 14 febbraio si inaugura allo “Spazio Lumera” di Milano, la mostra, la prima in Italia, di una giovane scultrice di Parigi, Mathilde Gaussin Zindo. “Tauromachines”, letteralmente “tauromacchine”, è il titolo della mostra che allude ai due aspetti che più colpiscono nelle sue opere: la violenza e la bizzarra contaminazione delle forme (uomo-animale oppure uomo-animale-macchina). Opere potenti e cariche di riferimenti alla mitologia antica: il Minotauro, il Centauro, il cavallo di Troia, la metamorfosi di Dafne, ecc. Ma si stenta a credere che immagini di tanta potenza e drammaticità vengano fuori dalla fantasie di questa graziosa “ragazza” - anche se ha 35 anni, è sposata da dieci ed è madre di due bambine - il cui viso ha qualcosa ancora della bambina, gli occhi spalancati e aperti sulla realtà, continuamente stupiti e feriti dal mistero.
Il mistero, appunto. É il fascino del mistero che, fin dall’infanzia, l’ha guidata per i sentieri tortuosi di una vita piena di contraddizioni: i rapporti difficili soprattutto con il padre, geniale compositore (allievo del grande Messiaen) ma sempre enigmaticamente assente, un ambiente familiare pieno di stimoli creativi (il nonno che recita per lei Racine e Corneille, la nonna che le racconta i miti classici) ma anche di fatiche e problemi. Un fardello pesante, quindi, tanto ricco quanto ingombrante, in cui è difficile, forse impossibile, distinguere tra il nutrimento e il veleno. Di qui un’adolescenza difficile, rapporti sentimentali frustranti, insuccessi scolastici, la sensazione di essere irrimediabilmente un “brutto anatroccolo”. E anni di psicoanalisi, unica risorsa in questo ambiente ormai del tutto secolarizzato, dove non si parla più né di Dio né di Cristo.

Finalmente Mathilde, che ha intuito nella creatività artistica la presenza di un mistero, approda alla scultura. Precisamente a un corso di modellato della Municipalità di Parigi tenuto da un insegnante di origine italiana, Dino Quartana. É il primo incontro con un maestro e un padre: discreto e attento, Dino le dà la certezza di cui ha bisogno per intraprendere e proseguire questo lavoro che la affascina molto, perché si lavora modellando la figura dal vero. La figura umana la attira da sempre, sente che il corpo umano è un altro veicolo del mistero: il mistero della sessualità e della generazione. Preso così coraggio e fiducia in se stessa, Mathilde si iscrive ai corsi dell’Accademia di Belle Arti, dove otterrà finalmente il diploma.
Ma intanto, attraverso Dino, ecco un altro incontro con il destino. Mathilde vuole impratichirsi nel taglio della pietra. Dino le presenta una sua amica, Marie-Michèle Poncet, scultrice professionale. Marie Michèle lavora per delle commesse in Italia e offre a Mathilde di accompagnarla come assistente in un cantiere di marmisti vicino a Bergamo. Il viaggio in Italia apre prospettive assolutamente impreviste: non per quanto riguarda la scultura, perché Mathilde si rende conto che, tutto sommato, la scultura in pietra, cioè per via di “levare”, non le interessa. Ma scopre gli “amici” di Marie-Michèle: Paola e Anna di Milano, anzitutto, e poi la famiglia Pinetti di Seriate, dove è situato il cantiere. Persone molto diverse, ma legate da una profonda e un po’ strana amicizia. Scopre che Paola e Anna appartengono a due fraternità, rispettivamente i Memores Domini e la “San Giuseppe”, in cui si dà totalmente la propria vita a Gesù Cristo. Ma anche che ci sono fraternità molto simili, fatte di famiglie dalle provenienze tra le più diverse eppure con una medesima, misteriosa, “aria di famiglia”.

Mathilde non sa nulla di cristianesimo e di Chiesa. Solo dopo molto tempo si è resa conto - con il massimo sbalordimento - che Dino è, in realtà, un padre domenicano e che vive in un convento di Parigi (le tocca consultare un dizionario per capire che cosa significa “domenicano”, avendo escluso, stante il colore della pelle, che Dino possa esser nativo di Santo Domingo…). Le resistenze sono ancora forti: non è che, in fondo, come ormai tutti dicono, i cattolici sono quelli che «si inventano un Papa buono perché hanno avuto un papà fallito?». Ma il passo decisivo è il rapporto con Nicolas, un padre dominicano, confratello di Dino, di 94 anni, attraverso il quale scopre due cose fondamentali: il mistero della tenerezza del Padre e la grande risorsa della preghiera. E, soprattutto, la riconciliazione con la morte. «Nicolas, che farò se tu muori?», gli chiede un giorno. «Ti porterò con me!» è la risposta. Pochi giorni dopo (lunedì di Pasqua) Nicolas muore, e davvero da quel giorno Mathilde è non ha più smesso di stare in sua compagnia.

E nella compagnia, così misteriosa per lei, che le testimoniano Dino, Marie-Michèle (anche lei, si scopre, appartiene ai Memores Domini) e Thérèse (che appartiene alla “Fraternità San Giuseppe”). Comincia a partecipare alla Scuola di comunità e ai ritiri della fraternità di Parigi: in questi momenti, nonostante le fiere resistenze e le battaglie interiori, intuisce «un condensato di qualcosa di grande da applicare alla mia vita». Sempre più le appare evidente che queste persone sono a lei donate. Dono che lei vive più intensamente al momento della nascita delle figlie (nel frattempo Mathilde si è sposata) e poi ancora nell’occasione di una grave malattia del marito.

Dopo il viaggio in Italia, Mathilde presenta una relazione su questa esperienza di lavoro all’Accademia di Belle Arti. I suoi amici nuovi scoprono quasi con sgomento che il testo della relazione - che sarà valutata da una commissione d’esame nell’ambiente culturale più cinicamente laico e anticlericale che si possa immaginare in Francia e forse in tutta Europa - si apre con una lunga citazione di Giovanni Paolo II e si chiude con un’altra, altrettanto lunga, dal Rischio educativo di Luigi Giussani. Come gettarsi nella fossa dei leoni! Ma Mathilde supera la prova con assoluta tranquillità, di fonte allo sconcerto forse un po’ divertito della commissione.
Così, ormai, dono della fede e dono della scultura fanno per Mathilde tutt’uno: «Guardo i volti dei miei amici e sono “incollata” al mio libro di preghiere»; «Per me la scultura è prima di tutto una parola che uno dice a se stesso e a un altro (Altro)».

Per info vai al sito di Spazio Lumera