La locandina di <em>Lehman Trilogy</em>.

Il crack della tradizione

Luca Ronconi mette in scena la piéce di Stefano Massini sulla banca d'affari americana. Cinque ore per ripercorrere centocinquant'anni: dalla Guerra di Secessione, alla conquista del West, dalla crisi del '29 a quella che stiamo vivendo
Luca Fiore

Lehman Trilogy, la piéce di Stefano Massini, classe 1975, andata in scena al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Luca Ronconi, classe 1933, è un vero e proprio colossal. Tema ambizioso, allestimento sontuoso, grandi attori. Un’opera suddivisa in due parti che, senza annoiare, tiene l’attenzione dello spettatore per un totale di quasi cinque ore di teatro.

La vicenda ripercorre un secolo e mezzo di storia della Lehman Brothers, la banca d’affari americana, dall’11 settembre 1844, giorno dello sbarco a New York di Henry, il più vecchio dei fratelli Lehman, fino al 15 settembre 2008, giorno del crack. È una cavalcata lungo la prateria della storia Usa: dalla Guerra di Secessione, alla conquista del West, dalla crisi del 1929 e il boom economico fino all’ubriacatura a sorsi di hedge funds e subprime.
Ebrei askenaziti provenienti dalla Baviera, Henri, Emanuel e Mayer Lehman approdano negli Stati Uniti ringraziando Dio (Baruch AhShem, è il loro intercalare) e aprendo un negozio di stoffe a Montgomery, Alabama. Diventeranno presto intermediari tra le piantagioni di cotone del Sud e le industrie manifatturiere del Nord. Un colpo di genio di Meyer, dopo la Guerra di Secessione, li farà diventare banca e l’intraprendenza di Emanuel li introdurrà alla frenesia di Wall Street. La determinazione di Philip e Robert, figlio e nipote di Emanuel, darà vita all’impero.

Lo spettatore sa già come andrà a finire e tutti gli snodi della vicenda (grandi momenti di successo imprenditoriale) appaiono come lunghe falcate verso l’abisso. Nonostante siano molti gli episodi divertenti, quello che prende corpo sulla scena non è altro che una lunga veglia funebre, la Shivà, si direbbe in ebraico.

La cornice dentro cui Massini inserisce la vicenda è scritta con l’alfabeto della tradizione giudaica. I protagonisti si riferiscono spesso ad essa: il mezuzah sullo stipite della porta del primo negozio Lehman, il bar-mitzvah dei figli, la crisi del ’29 come il diluvio universale e Robert come un novello Noah, e poi Ruth, Golyat, eccetera. Ma man mano che la vicenda procede si capisce che la cornice diventa contenuto. O meglio: quel che segna la discesa inconsapevole verso l’abisso è proprio un sostanziale allontanarsi dei protagonisti dal mondo dei padri. Restano ebrei fuori, ma dentro sono diventati qualcos’altro.

Lo si capisce in modo distinto dalle parole del capo marketing sotto la direzione di Robert, l’ultimo dei Lehman: «Noi faremo entrare in testa / al mondo intero / che comprare è vincere / allora comprare vorrà dire vivere. / Perché l’essere umano, signori miei / non vive per perdere. / Vincere è il suo istinto. / Vincere è esistere. (…) / Il nostro obiettivo / è un pianeta Terra / in cui non si compri più nulla per bisogno / ma si compri per istinto. / O se volete, concludendo, per identità. / Solo allora le banche, signori / diventeranno immortali». Robert accoglie il discorso con un sorriso che segna da una parte il riconoscimento che l’uomo non è più chi ripete Baruch AhShem, ma chi compra per sentirsi se stesso. E il sogno del banchiere diventa l’immortalità che può concedere non più l’antica alleanza, ma il nuovo dio denaro. La critica non è appena al trionfo dell’avidità, ma a ciò da cui scaturisce: lo smarrimento della propria tradizione e dunque della propria identità. Se è vero che non sarà la dinastia Lehman a condurre alla rovina la banca che porta il proprio nome (Robert muore nel 1969), è vero però che l’impronta al colosso finanziario era già stata data.

La bravura di Massini sta nell’offrire allo spettatore un racconto lineare. I tratti umani sono raccontati con humor e disincanto e anche gli aspetti che riguardano la finanza sono comprensibili da chiunque. In questo è aiutato dalla scelta di non entrare dentro i personaggi, ma di raccontarli dall’esterno. Da qui anche la sensazione che il dramma personale e collettivo che prende vita sul palcoscenico scorra senza colpire lo spettatore al cuore. Il controllo del racconto e della grande messa in scena danno l’impressione che l’obiettivo non fosse quello.