Primavera 1943: la scoperta dei corpi.

KATYN Appunti di umanità dall'inferno

Dopo quasi 70 anni vedono la luce in Italia i taccuini dei 22mila ufficiali polacchi trucidati dai sovietici durante la Seconda Guerra mondiale. Nella prigionia, una testimonianza unica di libertà
Fabrizio Rossi

«C’è qualcosa nell’aria, cara Marys... Partiti 342 non si sa per dove... Ci trasferiscono ancora». Parole scarne, annotate in matita su un calendarietto tascabile. Sono gli appunti segnati il mattino del 2 aprile 1940 da Marian Gasowski, ufficiale polacco. Uno dei 22mila ufficiali trucidati nei boschi di Katyn’ (presso Smolensk), Tver’ e Char’kov tra aprile e maggio 1940. Un eccidio voluto da Stalin, che invece ne addossò la colpa ai nazisti in marcia verso Mosca nell’agosto 1941 (la responsabilità sovietica fu ammessa solo dopo la caduta del Muro, nel 1990). Una pagina di storia rimasta a lungo sepolta e tornata alla ribalta anche grazie all’ultimo film di Andrzej Wajda, Katyn. Una memoria ancora scomoda, come dimostra il clima di polemiche e boicottaggio che ha accompagnato la sua uscita nelle sale.
A questa vicenda il nuovo numero del bimestrale La Nuova Europa (in uscita il 3 giugno; pp. 112, 6 €), edito dalla Fondazione Russia Cristiana, dedica un dossier a cura di Angelo Bonaguro. Che per la prima volta in Italia pubblica gli appunti di quegli ufficiali, ritrovati nelle fosse comuni accanto ai loro corpi: una testimonianza in presa diretta del massacro, da cui emerge innanzitutto l’umanità calpestata delle vittime. Materiali improvvisati - taccuini, agendine, calendarietti tascabili -, cui lo stesso Wajda ha attinto per ricostruire alcune scene. Voci strappate all’oblio per miracolo, come appunta il maggiore Adam Solski la sera del 13 ottobre 1939: «Cena tardi a causa della commissione che ha condotto gli interrogatori. Hanno preso anche i documenti, i taccuini, gli orologi d’oro e d’argento... Ma il mio taccuino s’è salvato: era nascosto da un’immaginetta di santa Teresa».
Il primo duro colpo arriva con la notizia del protocollo tra Germania nazista e Urss, che dà il via all’invasione tedesca da Ovest (1 settembre 1939) e a quella russa da Est (17 settembre): «Ho saputo qualcosa di davvero sconvolgente - scrive l’ufficiale Leon Gladun in quei giorni -: la Russia sta muovendo contro di noi e ha oltrepassato le frontiere! Nelle caserme regnano l’anarchia e il caos. Molti hanno deposto le armi e si sono diretti verso casa, altri scappano verso Ovest... Dopo essere tornati il 19 alle nostre caserme, ci siamo risvegliati il giorno dopo circondati dai tank russi».
Il comando polacco è in preda alla confusione: vengono catturati 60mila soldati e ufficiali, destinati a diventare 250mila in poco più di un mese. Dopo un viaggio sfibrante («fa un freddo terribile, non si riesce a lavarsi e il sudiciume si accumula», testimonia Gasowski) vengono smistati in otto campi di concentramento. Qui le condizioni sono pessime: «Un migliaio di persone rinchiuse come mosche in nove baracche - appunta l’ufficiale medico Stefan Pienkowski -. Siamo stretti, fa freddo, fanno male le ossa. Le notti sul tavolato sono terribili». Ai prigionieri, ammassati perfino in stalle e porcili, non viene data biancheria. I forni non riescono a produrre pane a sufficienza, non c’è l’acqua. Ma non manca la propaganda sovietica, dai quotidiani ai documentari per la «rieducazione politica» dei detenuti: «Oggi conferenza sull’industria mineraria - annota Gasowski -. Poi su “L’Inghilterra e le sue colonie”. I bolscevichi ci propongono i loro film... Ho visto uno spezzone sulla rivoluzione del 1905».
Ma anche la prigionia, per gli ufficiali polacchi, è un’occasione per ribadire la propria identità: al mattino intonano il Kiedy ranne, un canto della loro tradizione, la sera pregano. A volte un sacerdote riesce a dire messa nelle baracche, sempre che i documentari su Lenin e le lezioni sull’economia comune non lo impediscano («Oggi è la santa domenica. Ma nel paese dei soviet non c’è Dio...», scrive Solski). Una posizione libera che non può che allarmare l’NKVD, la polizia politica. Tanto che Lavrentij Berija, il commissario del popolo agli interni, in una lettera del 5 marzo 1940 a Stalin definisce i prigionieri polacchi «nemici giurati del popolo sovietico, pieni di odio verso il nostro sistema». Di qui, la decisione: «esaminare i casi secondo la procedura speciale, applicandovi la massima misura punitiva: la fucilazione».
Per il taccuino del maggiore Solski, come per gli altri 22mila che hanno condiviso la stessa sorte, è arrivata l’ultima pagina: «Ci hanno fatto salire nei vagoni prigionieri... Le 5 meno un quarto. Sveglia. All’uscita attendono le camionette. È iniziato un giorno un po’ strano. Viaggio in una camionetta divisa in celle (terribile!). Ci portano da qualche parte nel bosco, una specie di casa di villeggiatura. Perquisizione dettagliata. Mi hanno preso l’orologio che indicava le 6.30 polacche. Mi hanno preso i rubli, il passaporto, il temperino». Pochi minuti dopo, gli avrebbero preso anche la vita.