Franco Branciaroli in Don Chisciotte.

DON CHISCIOTTE
Uno sguardo ironico sull’esperienza umana

Franco Branciaroli ha portato in scena il capolavoro di Cervantes. Una scommessa ad alto rischio. Ma vinta. Anche grazie a Dante...
Luca Doninelli

Spiegare quello che fa Franco Branciaroli in questo spettacolo - Don Chisciotte - ideato, scritto, diretto e interpretato da lui - unica compagna d’avventura, nell’opera, è la grande scenografa e amica Margherita Palli - è quasi privo di senso, e richiederebbe certamente un tempo maggiore rispetto all’ora e mezza scarsa di durata.
L’idea, che Branciaroli si portava dentro da sempre (tutti gli uomini di teatro si portano dentro da sempre Don Chisciotte, è inevitabile), ha cominciato a prendere forma nell’anno del Meeting donchisciottesco, il 2006, e proprio al Meeting fu presentato il primissimo abbozzo - ancora eccessivo, imperfetto, troppo discorsivo - del capolavoro impeccabile che oggi tutto il teatro italiano sta ammirando.
Un’opera teatrale ha senso quando fa accadere qualcosa, introducendo nel quieto tessuto della società, rappresentata in prima istanza dagli spettatori, un’inquietudine, quando la superficie del pensiero comune viene incrinata da qualcosa che obbliga, anche solo per una, due ore, a riconsiderare il proprio modo di guardare il mondo.
Tutta l’arte ha questo scopo, ma il teatro lo realizza attraverso un’azione istantanea, in cui il tempo di chi fa e quello di chi guarda sono un unico, identico tempo. Perciò possiamo dire che la contemporaneità è la caratteristica in più del teatro. L’evento pubblico è contemporaneo alla sua realizzazione tecnica.
Per tanti anni ho fatto il critico teatrale, e vi posso garantire che quanto vi sto dicendo mi è capitato cinque, sei volte, non di più. Proprio perché il rischio del teatro è maggiore - non si può correggere nulla in corso d’opera - è maggiore anche la possibilità di fallire.
In Don Chisciotte, Branciaroli raggiunge una misteriosa perfezione nella quale sente (me l’ha detto personalmente, e lo spettatore lo sente a sua volta, guardando) di poter fare assolutamente tutto. Il legame tra attore e spettatore avviene nel segno di una libertà enorme, che dà pace e inquietudine insieme. La bellezza, del resto, è proprio questo: una pace che non dà pace.
La scena si svolge in paradiso, dove i due più grandi attori italiani del Novecento, Vittorio Gassman e Carmelo Bene (impersonati ambedue da Branciaroli mediante impressionanti cambi di voce), ripercorrono alcuni episodi del Chisciotte. Perché proprio il Chisciotte? Perché proprio quel romanzo, nell’atto di distanziarsi dall’età storica che il suo protagonista evoca (il medioevo e i suoi valori), inaugura la modernità.
Ma il Chisciotte costituisce, al tempo stesso, uno dei più ricorrenti fallimenti teatrali. Impossibile “interpretarlo”: il Chisciotte è già, lui, un’interpretazione, ironica: della storia, dell’uomo, e della struttura stessa del cosmo. Interpretare a teatro il Cavaliere dalla Triste Figura è impossibile perché lo si sbilancerà inevitabilmente verso una delle sue dimensioni: la follia, il sogno, la stupidità, e così via - riportando don Chisciotte a quella dimensione naturalistica che è esattamente quella dalla quale Cervantes volle prendere congedo.
Branciaroli prende una via nuova: non impersona don Chisciotte, bensì due attori, due grandi attori che sono anche due maschere del nostro teatro, nell’atto di assumere i panni impossibili di don Chisciotte (Gassman) e Sancho (Bene).
I due attori (che rappresentano il vertice raggiunto dal teatro tradizionale e da quello d’avanguardia in Italia) non riescono sempre, tra un complimento e l’altro, a reprimere la rivalità che li separa. Tra una scena e l’altra del Chisciotte c’è tempo per discussioni e sfide, come quella, strepitosa (anche se un po’ eccessiva), nella quale i due evocano nientemeno che lo spirito di Dante (dall’inferno, va da sé), chiamandolo a giudicare chi tra loro recita meglio il Canto V dell’Inferno.
Branciaroli ne dice metà in stile Gassman e metà in stile Bene, l’anima del Poeta pronuncia la sua sentenza derisoria e tutto continua come prima. Branciaroli dimostra qui un possesso strabiliante dei tempi teatrali, e gli applausi a scena aperta non si contano, soprattutto quando il nostro mattatore s’improvvisa anche ballerino. Le donne vanno in visibilio, i giovani si entusiasmano - forse perché vedono qualcosa di diverso dal solito.
Incontrare Don Chisciotte, così come incontrare Galileo o Shakespeare o Picasso, significa assistere a uno di quei cambi d’epoca nei quali tutto l’ordine del mondo ritorna nel caos prima di ritrovare un nuovo ordine.
Ma non c’è solo questo. In un aldilà dove tutti gli spiriti possono essere evocati (Dante in primis), è significativo che nessuno senta la necessità di evocare lo spirito di Miguel de Cervantes. Anzi, a ben vedere in questo paradiso non c’è nemmeno Dio.
Forse il senso di questo bellissimo spettacolo sta proprio qui: nel rappresentare con lucidità l’inizio dell’epoca moderna, che introduce nel mondo quella vena nichilista che porterà alla morte di Dio inteso come Padre e, conseguentemente, anche a quella dell’Autore - ossia dell’uomo inteso come io pensante, volente e desiderante.


Lo spettacolo è: a Milano al Teatro Strehler fino al 15 febbraio; il 17 e 18 febbraio al Teatro Ariosto a Reggio Emilia; il 19 febbraio a Bellaria; dal 20 al 22 febbraio al Teatro Morlacchi a Perugia.